tag:blogger.com,1999:blog-47908186270983648312024-03-13T10:48:58.689-07:00TashtegoFrancesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.comBlogger196125tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-86662390904495412982011-11-09T22:39:00.000-08:002012-02-29T00:18:59.774-08:00Su due righe_1Già nell’istante successivo a quello in cui esco dalla doccia, inizio a sporcarmi, il corpo non tollera di restare pulito e subito ricomincia, assorbe e spurga da sé la sporcizia del mondo.<br />
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Venire da te in questo pomeriggio di sotto-passaggi allagati, fino ai territori sconosciuti in cui ti nascondi, nella tua lontana calda capsula vitale.<br />
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E allora i pomeriggi d’acqua e di vento, a nuoto sotto le falesie di Sarìa? E allora quelle notti assolute di stelle? E allora il meteorite che a mezzanotte fece giorno sull’Egeo?<br />
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Ci sono le foto a dirti che c’eri. Sei esistito in quegli anni e il tuo corpo non era come adesso. Sulla soglia dei Sessanta, eri magro agitato stronzo intelligente, senza un’idea chiara in testa, che fosse una.<br />
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Ci sono foto che dicono che a due anni giocavi sulla breccia bianca dell’isola-giardino al centro della Piazza. Quella Piazza l’hai sempre pensata tonda e invece è quadra.<br />
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La città ci sopravvive, seguita, va avanti, si trasforma senza di noi. Ma di noi ha pur avuto bisogno, un tempo, per potersi dire abitata.<br />
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Eppure tutto si consuma lo stesso, anche le cose più dure sublimano, perdono molecole. Se il ferro ha un odore, quello è il suo lento disfarsi nello spazio e nel tempo. Succede anche ai serpenti in travertino.<br />
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Ci sono foto che dicono che hai avuto trent’anni. È incredibile, ma tu davvero hai avuto trent’anni?<br />
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Ancora pesci morti quest’oggi nelle pescherie. Sono sempre meno, sempre più opachi, residuali, falsificati negli allevamenti. A questo punto potremmo anche smettere. Se muore il mare muore tutto il resto.<br />
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Si vendono ciottoli sbiancati, allo smorzo. E mattonelle nuvolate finto-antiche. E tegole falsamente macchiate dal tempo. Gli smorzi sono depositi culturali, bussole che ci dicono a che punto siamo.<br />
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Ripasso spesso distrattamente nei punti di questa città dove stavo per perdere la vita. A quell’incrocio ogni tanto cerco di rivedermi, sdraiato sull’asfalto in mezzo alla strada.<br />
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Aspetto che si metta di fianco e intanto lo seguo, finché mi regge il fiato. Poi lo fa. Tiro il grilletto a braccio teso. Da questo istante in poi, tutto si semplifica in modalità binaria: lo colpisco/lo manco.<br />
<br />
Ma c’è sempre una terza possibilità: ferirlo senza trattenerlo. In modo che se ne vada a morire per conto suo, sotto una roccia. Inutilmente.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-10340945558580592272011-11-08T22:42:00.000-08:002012-02-29T00:20:30.651-08:00Averci una casaPer quasi un anno ero vissuto di qua e di là. Sui divani degli amici, per lo più, con poche cose in un borsone che nascondevo coscienziosamente al mattino in qualche angolo di quei soggiorni da single o da coppia giovane e squattrinata un po’ tutti uguali, coi manifesti di Steinberg e di Folon alle pareti, parecchio Klimt e qualche costruttivista russo e molti libretti politici negli scaffali, comprese intere annate di Quaderni Piacentini e Quaderni rossi e la famigerata edizione del Capitale di Editori Riuniti, intonsa ovunque, ma status simbol obbligatorio anche se ormai obsoleto. <br />
E la chaise longue di Le Corbusier o quella a dondolo Thonet, residui iconici et culturali di una generazione che tirava i remi in barca, coi matrimoni che scoppiavano (come il mio), i figli piccoli, le ultime canne, la casa in centro storico e i soldi da guadagnare e i socialisti che davano le prime unghiate da nouveaux riches della politica, con quel craxone pelato e unto di sudore, lo sguardo sprezzante al Midas, mentre le BR uccidevano, e ancora avrebbero ucciso, per anni, con «geometrica potenza». Non avevo più una casa e non riuscivo a trovarne una nuova e neanche mi andava di cercare, vivevo praticamente nel mio studio, mangiavo tramezzini al bar o cercavo di farmi invitare a cena o me ne andavo in solitudine in trattoria. Proprio sotto allo studio un «noto tatuatore» aveva aperto, non si capisce a quale titolo, una specie di locale in un seminterrato, ove scoprii che un socio era un mio vecchio compagno di scuola, un primo della classe che aveva dirazzato e girato il mondo e che alludeva continuamente a situazioni vissute un po’ strane e pericolose, senza mai raccontare veramente nulla. E allora per un po’ la sera mangiavo lì. Solo a notte alta mi ritiravo da qualche parte, su un divano o un letto prestati, ma per poco. Mai più di un paio di settimane, massimo un mese. Nella mia distrazione non avevo mai considerato che la casa è per tutti una cosa delicata e importante e nessuno vuole averti tra le palle per più di qualche giorno, anche se praticamente non ti si vede né ti si sente. A nessuno frega realmente qualcosa di te e dei tuoi problemi. Non hai una casa? Trovatela e sparisci, per favore. Dunque saltavo di qua e di là, di casa in casa, sfruttando quel po’ di solidarismo de sinistra che ancora ci restava, a me e ai miei amici, più per abitudine ormai, che per reale convinzione. E poi trovai una casa: apparteneva a un giornalista amico di amici, e stava in un posto lontano e sconosciuto, molto vicino a dove immaginavo si situasse l’Orlo della Città. Ma mi facevano il contratto e costava poco. Una stanza più bagno et cucina. L’amico di amici possedeva in realtà tutto lo stabile, un palazzone di una decina di piani, quadratozzo, anni ’60, tristissimo e grigetto e irto di antenne come un cesto di aragoste, niente parcheggio condominiale, in un quartiere di speculazione democrista spinta e intensiva, con qualche terrain vague qui e là non ancora costruito, che fungeva da deposito di materiale edile o da area stoccaggio di sfasciacarrozze, e i parcheggi per strada insufficienti e i vigili stranamente solerti e integri che alle 8,30 del mattino ti chiamavano il carro attrezzi e ti facevano sparire la Cinquecento piazzata per disperazione in curva. Il letto-soggiorno dava su un balconcino, che a sua volta si proiettava in modo spericolato, dal settimo piano, nello spazio sovrastante una di queste aree vuote, lasciata a monta rozzi, con qualche macchina da cantiere che vi arrugginiva placidamente: questa piattaforma sul vuoto dava a sud e si beccava un sole violento e una luce abbacinante per quasi tutta la giornata e da lì la vista andava abbastanza lontano, solo per scoprire che quell’incubo di non-città che mi premeva addosso, in realtà era eletto a sistema e si estendeva molto oltre quei dintorni. Temevo quel balconcino e il suo troppo sole e odiavo pure il disegno della ringhiera-con-fioriere, di cui lasciai sempre incolta e polverosa la terra: lo odiavo perché aveva qualcosa di pateticamente poetico e se ne stava nello spazio come il cesto di una mongolfiera e appena vi mettevo piede mi innescava nel cranio un monologo interiore in automatico, fatto esclusivamente di pensieri maligni. Ero convinto che prima o poi mi sarei buttato di sotto. Così, d’impulso.
In quella casa ci misi un letto a una piazza e mezza (ai piedi del quale collocai su uno sgabello un televisorino in bianco e nero, di quelli con le due antennucce, una diritta e l’altra circolare, da orientare), quattro sedie ministeriali di faggio e un tavolo minimale - roba comprata da uno che ci aveva un capannone sulle rive dell’Aniene dalle parti della Salaria - e una specie di armadio e basta, mi pare. Mi procurai anche uno specchio per il bagno, in verità, con annessa triste e indispensabile mensolina. Regolai il boiler al massimo in modo da potermi fare il tè al mattino. Comprai una scopa, ma non la usai mai, finché fui costretto a assumere una donna delle pulizie, suggeritami dal portiere dello stabile, che un po’ puliva e un po’ rubacchiava il rubacchiabile, vale a dire qualche camicia e qualche calzino: il marito doveva avere la mia taglia.
Quell’autopunizione durò quattro anni. E in una notte di scirocco, rossa e terribile e piena di polvere tirata via dall’anima centrale del Sahara, raggiunsi di colpo e senza preavviso le condizioni adatte a fare REALMENTE il salto da quel balcone: una specie di ingiustificato, irriferibile schifo e ribrezzo di me stesso, ma freddo e senza l’ombra di perdono e consolazione…Insomma potevo farlo, ma non lo feci per semplice paura di morire.
In seguito, per tutto il tempo che restai in quella casa, non misi mai più piede sul quella piattaforma sovraesposta.
E finalmente, dopo qualche mese, me la filai di lì.
Da allora ho sempre evitato anche solo di percorrere quella strada.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-3673995812190677862011-11-07T22:43:00.000-08:002012-02-29T00:21:07.427-08:00La luce persa all’E42<br />
M’intride come un’acqua<br />
Un neon di bocciofila d’estate<br />
Eppure è solo il mare<br />
Che fa da specchio e lancia<br />
Riflessi che arrivano fin qui<br />
Un rombo ottuso lieve nelle orecchie<br />
La rètina si spacca nella vampa<br />
Di scirocco d’aprile<br />
E non si placa l’albedo nucleare<br />
Di marmo, sabbie, di lontani venti.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-39337637766433081952011-11-06T22:44:00.000-08:002012-02-29T00:21:37.777-08:00Mussolini non sapevaNella sala d’aspetto del Medico della Mutua, porto sicuro dove si passa la mattinata a aspettare una visita, un colloquio una ricetta, due anziani parlano delle loro esperienze di guerra. Sulle prime mi sembra strano che ancora ci sia in giro gente che ha fatto la guerra e questi due nemmeno sembrano tanto vecchi. Non capisco tutto quello che dicono, pare che abbiano entrambi combattuto con gli alleati dalle parti di Cassino. Dovevano essere giovanissimi, hanno l’aria innocua e dimessa di due vecchietti qualsiasi, non si direbbe che su di loro sia passata la Storia con la Esse maiuscola. <br />
Per un po’ dicono le cose di guerra con l’intonazione, che conosco bene, di chi le dice per così dire dal basso, come se un’autorità suprema inconoscibile fatale ineluttabile potesse disporre della vita e della morte di tutti gli umani del tempo. Ne parlano con tranquillità, sono cose passate, favole sepolte di cui non importa niente a nessuno. Qui dentro, solo per loro (e per me) sono interessanti. Citano nomi di posti e di persone, di comandanti, di reggimenti, di corpi d’armata. Si dicono a vicenda di episodi di morte e privazioni e pericolo, vicende lontane di tedeschi, alleati, di linee del fronte, di marocchini. Rimproverano severamente gli alleati di aver dato carta bianca ai marocchini. Rimproverano i nazisti per le atrocità commesse. Non fanno nessun cenno al fatto che noi eravamo loro alleati. Sembra che la guerra l’Italia l’abbia fatta tutta dalla parte degli americani. Loro l’hanno scampata, finita la modalità assoluta che si esprime nel codice binario vita/morte, il resto della loro esistenza l’hanno vissuto nella pace. Nessuno li ascolta, è una cosa tra loro, seguitano a parlare, a raccontarsi. È il piacere del riconoscimento, è l’appartenenza a un passato ormai remoto, che tra pochi anni nessuno sarà più in grado di narrare in prima persona. Ce l’hanno con Hitler, ma non con Mussolini, cui perdonano tutto. Gli vogliono ancora bene. Mussolini non sapeva, gli facevano credere…Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-44900326957110871092011-10-29T22:45:00.000-07:002012-02-29T00:24:31.106-08:00Se soloIeri sera sul Lungotevere Tor di Nona risuonava a tutto volume il solito verso dello storno-paurato, mentre milioni di storni, provenienti da un cielo limpidissimo, si posavano lo stesso sui platani e (come noi) sicuramente pensavano Cheppalle questi, ancora con questa roba. Se solo l’autunno quest’anno non fosse così rapido & feroce nel suo procedere, con l’ineluttabilità dei procedimenti astronomici. <br />
Se solo Via dei Coronari non mostrasse ogni anno che passa la stessa attitudine al degrado di tutto il Grande Parco a Tema che ci circonda, percorso dai soliti gruppi un po’ imbecilli di turisti e in particolare da ragazzine americane seminude che non sentono il freddino e cantano in coro. Se solo il gallerista non avesse appesi i soliti Cambellotti e disegni di Giulio Aristide Sartorio e uno schizzo di Sironi, a ricordarci delle nostre radici culturali, in fondo così corte e soffocate. Se solo Santa Maria dell’Anima non avesse quel suo sussiego tedesco a rimproverarci in continuazione di essere stanchi e barocchi. Se solo lì accanto non ci fosse il Raphael, che sempre mi ricorda il volto pallido terrorizzato di Craxi sotto una pioggia violenta di monetine. Se solo Via del Governo Vecchio avesse un po’ meno gelaterie scrause e fosse un po’ più deserta silenziosa discreta, ad accogliere la notte che arriva. Se solo davanti a Baffetto non ci fosse la cazzo di fila perenne di avventori, in modo che il passante per una volta possa dire Toh, davanti a Baffetto stasera non c'è la solita cazzo di fila perenne di avventori...Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-61438368652293042562011-10-27T22:46:00.000-07:002012-02-29T00:43:35.469-08:00Le origini del bar PorcacciLe origini di quello che poi diventò il Bar Porcacci si perdono nel tempo, ma sicuramente non sono anteriori all’urbanizzazione della Valle delle Argille, che risale a quaranta anni fa, se non prima. La Valle pare sia stata un tempo, cioè 350.000 anni fa, il letto del Fiume. Ed è per questo che è venata di argilla buona per i mattoni. Ed è per questo che è cosparsa dei ruderi di antiche fornaci. Non ostante che l’espansione della Città sia passata anche di qua, e massicciamente, la Valle non si è mai lasciata domare del tutto. <br />
Le sterpaglie incolte dove si cela qualche baracca, le greggi che ancora pascolano a pochi metri dal Nodo di Scambio, i falchi, le cornacchie, i pappagalli perfino, i sentieri che si snodano nei cespugli percorsi da uomini e donne che vivono in stadi di civiltà anteriori al nostro, eccetera, tutto questo ci dice della riottosità di queste lande a farsi parco urbano, di una loro inclinazione verso uno Stato di Natura che, sotto sotto, assedia la Città intera.
Di sicuro si sa che il proto-Bar Porcacci era un tempo condotto da una signora di colore, forse una somala, un’etiope, perfettamente padrona della lingua italiana, gentile e spiritosa. Il locale non aveva nulla dell’odierna pseudo-fichetteria, era solo un baraccio spoglio sporco e terminale, come ce ne sono tanti, con la vendita tabacchi, la vetrina frigorifera del latte, il cassone rosso dei gelati Algida, niente sedie e tavolini fuori. Per me era confortante, sapeva di Roma, di periferia, e di alcune altre cose che conosco di questa città. Mi ci fermavo solo per bere il suo caffè pessimo e ogni volta provavo sensazioni buone e cattive allo stesso tempo. Buone per i motivi suddetti, cattive per via del gruppo di ragazzi che vi si riuniva, i Parlanti di Calcio, che stazionavano lì per praticamente tutta la giornata. Era la mono-tematicità dei loro discorsi, impermeabili a qualsiasi altro argomento e accadimento che non fosse il Calcio, a darmi noia. Se gli avessero detto che un meteorite stava per distruggere la Terra, loro avrebbero continuato imperterriti a discutere dei nuovi acquisti della Roma. Sì, della Roma, perché la loro mono-tematicità si restringeva a una sola squadra. Tutti romanisti, erano. Questo gruppo aveva anche un suo punto di ritrovo fuori del bar, lì vicino, in una strada laterale, una specie di muretto dove sedevano a discutere di calcio dopo-cena, fino a notte fonda. Ora sono quasi tutti andati via, cresciuti, scomparsi. Ne è rimasto solo uno, il Rosso. Il Rosso per anni era stato lì, felice, dentro a quel bar e al suo gruppo di giovani Parlanti di Calcio. Poi piano piano, chi si è sposato, chi se n’è andato, il Rosso è rimasto solo. Andata in pensione la signora che gestiva il proto-Bar Porcacci, il Rosso per un po’ ha seguitato ad appoggiarsi lì, poi, con l’avvicendarsi dei vari gestori, si vede che si è sentito respinto, estraneo, e non c’è più entrato. Adesso è cresciuto molto, sta perdendo i capelli, lo vedo spesso seduto da solo sul vecchio muretto, che si legge il Corriere dello sport. Oppure fa finta e in realtà aspetta che qualcuno dei vecchi amici suoi si rifaccia vivo. Ogni volta che gli passo davanti vorrei fermarmi e dirgli Ma che cazzo fai ancora qui? Non ti accorgi che ormai sei una figura patetica? Vorrai prendere atto una buona volta che non è più l’Anno dello Scudetto di Capello? Che la Roma è cambiata? Che Totti sta per levare le tende per anzianità?Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-88256102821678404012011-10-25T22:47:00.000-07:002012-02-29T00:44:42.096-08:00Breve storia del bar PorcacciTempo fa la Cicciona del bar Porcacci ebbe un problema col marito, ciccione anche lui e anche lui al lavoro tutte le mattine dietro il bancone. La coppia fece il botto, lui non si vide più, lei discuteva animatamente delle sue vicende con alcune clienti affezionate e intime. Il destino ci mise il carico da dodici, perché fu proprio in quel periodo che il bar Porcacci fu scassinato e derubato di non ricordo più cosa. Il bottino fu scarso ma i danni erano gravi. Il locale chiuse per qualche giorno e riaprì che l’avevano aggiustato alla bell’e meglio. <br />
<a name='more'></a>L’architetto che in origine redasse il progetto del Porcacci, a dispetto del contesto e della clientela, fornì un’ottima prestazione e alla fine sembrava un bar fichetto (in un luogo del tutto privo di fichetti), anche se la fichetteria di riferimento di allora non è certamente più la stessa di oggi, perché oggi va un altro tipo di fichetteria, più dimessa e delabré. I padroni originari cedettero la gestione ad altri e questi ad altri ancora e così via, di passaggio in passaggio, fino ai Porcacci, che resistettero e dopo un po’ attecchirono. La loro strategia era semplice: fare spendere poco, pochissimo. Il caffè, che ancora oggi ti scende aspro lungo la spina dorsale, si pagava 0,60 euri (oggi 0,70) e tutto il resto costava in conseguenza. Quando il marito della Cicciona se ne andò (né mai più si rivide) lei andò nettamente in crisi, ma lottò. Si mise a dieta e cominciò a cercare delle aiuto-bariste. Per mesi, forse per più di un anno, si notava dietro al bancone un avvicendamento serrato di ragazze, alcune anche molto belle, che subito venivano sostituite da altre e queste da altre ancora. Intanto la Cicciona forzava quella che mi è sempre parsa un’obesità irrimediabile e costituzionale, fino a un limite impensabile: giunse sulla soglia della magrezza, vi si affacciò, ma non riuscì mai veramente a varcarla. Fu una lotta strenua, ma dette i suoi frutti, perché nel locale, o seduto ai tavoli fuori, si cominciò a vedere un tipo andante, un uomo in età belloccio e abbronzato, corpulento, con lunghi capelli grigiastri legati a coda dietro la nuca. Si capì subito che costui era il nuovo fidanzato della Cicciona de-ciccionizzata. Conseguenza immediata della presenza di un manzo in età fu la sparizione della barista carina e la sua sostituzione con una barista obesa, con occhiali e di carattere scostante: questo per stroncare ogni possibile fantasia al nuovo fidanzato. La seconda conseguenza, più a lungo termine, fu che la cicciona ricominciò a ingrassare e pure il fidanzato ingrassava. Lui se ne stava seduto gran parte della giornata al di qua del bancone, leggeva il giornale, giocava con la slot machine, oppure guardava la tv, sempre sintonizzata su Retequattro Italiauno Canalecinque. Se il manzo in età prima aveva un lavoro, e non è detto, lo lasciò presto. Ora è del tutto evidente che lui è deciso a non fare un cazzo, né davanti, né dietro il bancone, né probabilmente fuori di lì. Si fa la lampada estate e inverno e veste casual, ma con attenzione. La Cicciona ha ceduto ed è tornata alla sua antica stazza, ma deve aver capito che per tenersi il fidanzato basta mantenerlo, non occorre fare pure la dieta. L’aiuto barista, cicciona anche lei, ha intanto preso le redini del locale, così che i due fidanzati prendono fiato e al bar si vedono di meno. Il bar Porcacci è uno dei pochi che un cappuccino lo fa ancora pagare 0,90 euri. Altrove, anche in locali molto più scrausi e dimessi, è arrivato anche a 1,20.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-80681988005412174542011-10-24T22:48:00.000-07:002012-02-29T00:24:46.078-08:00InstallazioneSembra un’installazione d’arte contemporanea. Il pavimento di lamiera mandorlata (andavano di moda qualche anno fa), le pareti nude & bianche della cella frigorifera, tali e quali a quelle di una galleria. Nessun altro oggetto è presente a interferire con l’immagine forte del materasso steso in terra, accuratamente al centro della stanza, con su il cadavere di Gheddafi. Prima seminudo. Poi con una coperta rimboccata, come fosse a letto. Si entra, si fa un giro attorno al cadavere, si esce. Se fossi Damien Hirst chissà cosa darei per entrare in possesso delle spoglie del Rais: (Ghaddafi is dead, 80x195cm, materasso, corpo umano, tessuto, 2011)Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-41074644516328960042011-10-22T22:49:00.000-07:002012-02-29T00:24:55.916-08:00Eravamo tutti lìDifficile non parlarne. Anche perché apparteniamo al gruppo di paesi occidentali che hanno largamente collaborato, se non del tutto determinato, la sua morte. Gheddafi l’abbiamo ucciso noi per inter-posti combattenti per la libertà. Materialmente ci hanno pensato loro, ma è a noi che principalmente fa comodo la sua morte. Si è detto acutamente che Gheddafi «era la scatola nera degli ultimi 40 anni di politica internazionale». Può essere. Certo è che di questi otto mesi di guerra civile libica sappiamo pochissimo e quello che sappiamo non fa che accentuare l’impressione di una cosa torbida, contraddittoria, manipolata. Però non è detto, potrebbe trattarsi solo della nostra incapacità di comprendere il mondo arabo, o anche solo dalla forzosa scarsità di notizie. Ma non è di questo che volevo parlare. <br />
Mi hanno fatto molta impressione, come immagino a tutti, le immagini del linciaggio e della morte di Gheddafi. La faccia insanguinata stordita terrorizzata del Rais, la concitazione dei suoi carnefici, le continue invocazioni di Allah, come se cercassero un conforto divino per quello che stavano per fare. Il ragazzino che brandisce la pistola d’oro. Su tutto un’atmosfera di ferocia inconsapevole e tribale. Niente di militare, niente di politico, niente di «legale», ma una violenza in apparenza spontanea e «di popolo». Tutti capiscono che non si voleva dover gestire l’imbarazzo di un Gheddafi vivo da processare, per fargli poi far fare (senza alcun dubbio) la fine di Saddam. Eccetera. Ora il punto è che un conto è vedere la Storia nei sui passaggi cruciali e un conto è sentirne o leggerne solo il racconto. Nessuno riuscirebbe a parole a rendere in modo così vivido, come quei pochi minuti di video di cellulare, cosa è stato il morire di Gheddafi. Improvvisamente la Storia ti salta addosso, ti aggredisce con la sua crudezza, il sangue, la documentazione della sopraffazione fisica di cui è tutta intrisa e venata, come una bistecca lo è di grasso. La narrazione organizzata e pacificante finisce dove comincia il documento, che, quando è (raramente) nudo e crudo come questo, è un’altra cosa, non passa per il cervello, non sollecita l’immaginazione, ma si indirizza da un’altra parte, in altre zone della mente. Per capire anche solo qualcosa del clima della Primavera del Cairo occorre guardare quei due o tre video di furgoni (apparentemente di privati) che si lanciano a tutta velocità sui manifestanti e li schiacciano sotto i nostri occhi: quando è possibile che, nello spazio civile della città, accadano cose del genere, significa che tangibilmente l’ordine costituito è rotto e, prima che se ne costituisca uno nuovo, tutto può succedere. Quei video ti mostrano concretamente qual era il clima di quei giorni e ti coinvolgono nella forza dell’emozione collettiva allora dominante. Insomma è ovvio: una cosa è ascoltare la narrazione della decapitazione di Luigi XVI e una cosa è assistervi. Assistere è partecipare all’evento, dargli un senso.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-77373197744850230392011-10-16T22:49:00.000-07:002012-02-29T00:25:05.053-08:00Il corpo-stallaMentre sono a letto, al mattino presto, quando è ancora buio, la bocca cattiva e secca di chi dorme male, sempre mi immagino dentro un corpo lurido & impuro come le Stalle di Augia. E allora faccio come Eracle, afferro la bottiglia d’acqua minerale che tengo accanto al letto e piano piano, sorso dopo sorso, metodicamente, me la bevo tutta. Lo stomaco mi si riempie di liquido che prova a traboccare su lungo l’esofago, mi sento più buono, immagino il mio sangue che lentamente si diluisce di nuovo, che diventa più fluido e scorre meglio nelle vene. Immaginare tutta quell’acqua che arriverà presto ai reni per compiere la sua ultima funzione detergente prima di essere espulsa mi dà un senso di pacificazione tale che certe volte perfino mi ri-addormento, per svegliarmi di nuovo di lì a poco nell’impellenza del dover pisciare. Allora mi alzo e completo il ciclo. Il mio corpo- stalla inizia a ripulirsi.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-63250137485449024552011-10-15T11:25:00.000-07:002012-02-29T00:26:16.093-08:00Ancora su ciò che è terminale<br /><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Una
lingua è terminale quando non ha parole per ciò che è nuovo. Se i nuovi
oggetti e dispositivi e macchinari, di qualsiasi natura siano, puoi
chiamarli solo con parole di un’altra lingua, allora la tua lingua sta
messa male. Se il corpo solido di un linguaggio nazionale, cioè
storicamente condiviso, diventa sempre più morbido e penetrabile agli
apporti di altre lingue, allora significa che la stessa cultura
nazionale si sta progressivamente indebolendo. L’inglese assedia
passivamente l’italiano, senza fare nessuna vera pressione, ma riesce a
bucarne le difese molto facilmente. </span></span><br />
<span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Ogni giorno, si può dire, avviene la
sostituzione ufficiale di una parola italiana con una parola inglese. <i>Spread</i> attacca e uccide in pochi giorni il suo corrispettivo italiano: <i>differenziale</i>. Basta che la CNN usi la parola <i>compound</i> per designare la postazione semi-fortificata, un tempo detta <i>bunker</i> (altra parola non italiana, italianizzata), del nemico pubblico numero uno mondiale, Bin Laden, perché <i>compound</i>
entri di fatto nel linguaggio corrente, che è poi quello della
televisione. Tutti i termini informatici sono inglesi. L’italiano non ha
provato nemmeno un solo giorno a resistere, come invece hanno fatto i
francesi con il loro <i>ordinateur</i>, i loro <i>fichier</i>. In fondo la parola <i>calcolatore</i>,
benché assai impropria, poteva anche andare bene. Tutto questo indica
una mutazione, un cambiamento, in definitiva un declino. Una cultura è
provinciale non quando <i>non riceve</i> apporti esterni, ma quando <i>non fornisce </i>apporti
all’esterno, quando non emette, quando accoglie e incamera senza a sua
volta contribuire. In questo modo abbiamo cominciato a scomparire
dall’orizzonte culturale del mondo. </span></span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-62976695064553196242011-10-14T11:27:00.000-07:002012-02-29T00:46:48.116-08:00<br /><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">«…Gli
italiani sono un popolo in via di estinzione. Secondo le stime delle
Nazioni Unite, entro il 2040 i tre quinti degli italiani saranno
pensionati. Anche ipotizzando una ripresa graduale del tasso di
fecondità, il numero di donne in età riproduttiva sarà calato del 40%
entro la metà del secolo. Questo significa che la popolazione italiana
non si riprenderà mai. Gli imprenditori italiani hanno bisogno di
vendere il loro talento all’Asia, perché tra qualche anno le migliori
aziende a conduzione famigliare non avranno più familiari per tenere in
vita l’attività. </span></span><br />
E faranno la fine dei maestri soffiatori di Murano,
dove rimangono ormai pochi artigiani che intrattengono i turisti creando
animali di vetro. (…) I cittadini italiani finiranno per vivere in un
parco a tema. Venderanno pizza, soffieranno vetro e imbottiglieranno
vini pregiati per la gioia di frotte di asiatici». <br />
<span style="font-family: times new roman;">Da <em>L’Italia diventerà un parco a tema</em>, David P. Goldman, Asia Times, Hong Kong, su Internazionale n.918, della settimana scorsa. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Sono anni che vivo avvolto
nella sensazione di vivere in una cultura terminale, di parlare e
scrivere in una lingua terminale. Forse è davvero iniziato un declino
più profondo e definitivo di quanto non si creda. Quello che ci
cancellerà dalla storia futura in meno di un secolo.</span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-60869121969444847132011-10-11T11:29:00.000-07:002012-02-29T00:26:37.595-08:00S.C.U.M.Rileggo dopo tanti anni <i>S.C.U.M., Manifesto per l’eliminazione del maschio</i>, di Valerie Solanas (1936-1988), uscito nel 1967 in USA.<br />
«Il
maschio è totalmente egocentrico, intrappolato in se stesso, incapace
di trasporto, di identificazione con gli altri, di amore, di amicizia,
di affetto, di tenerezza. È un’individualità isolata, incapace di
comunicare.».<br />
(…)<br />
«È un morto vivente, è una massa inerte, incapace di procurare o di
ricevere piacere e felicità; nel migliore dei casi è una noia infinita,
una bolla d’aria inoffensiva, perché solo chi è capace di osmosi sa
sedurre.».<br />
(…)<br />
«Poiché il maschio disprezza il suo Io totalmente inadeguato, viene sopraffatto
da un’intensa inquietudine e da una profonda, infinita solitudine non
appena si trova a tu per tu con il suo Io vacuo, e allora si aggrappa ad
una femmina qualsiasi nella vaga speranza di completare se stesso,
nella mistica fede che toccando l’oro si trasformerà in oro, e per
questo brama la costante compagnia delle donne.».<br />
Eccetera.<br />
Il testo di Solanas mi riconferma nell’idea che il pensiero o è <i>estremo</i> o <i>non</i> <i>è</i>.
Nel senso che, oggi, un reale riconoscimento della verità di
un’argomentazione può avvenire solo se questa viene formulata in modo
esasperato, cioè forzato fino al limite della menzogna e della
mistificazione. In questo modo il nucleo che ne contiene il nocciolo
sguscia allo scoperto, si fa vedere senza veli, digressioni, distinguo,
dubbi, eccetera. Tutti vezzi, questi, tipici della corretta
comunicazione accademica borghese, che aborro.<br />
Nel disprezzo estremo e <i>ingiusto</i> di Solanas per il genere cui appartengo, riconosco la verità della mia condizione.<br />
Insomma io queste parole le apprezzo, le con-divido. Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-66652552862491103202011-03-28T20:31:00.000-07:002012-02-11T11:32:55.088-08:00Ancora per qualche mesequesto blog sarà sotto-alimentato di post. Ho bisogno di ogni parola che mi viene in mente per un lavoro che sto facendo e che sembra durare a lungo... Me ne scuso con chi ancora capita qui.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-77230791203120293742011-02-11T20:32:00.000-08:002012-02-29T00:27:12.490-08:00Neuroni allo specchioSpendere ancora parole su questa storia è difficile, forse inopportuno.
Eppure sono convinto che dentro molti di noi prema un non detto, un complessivo basta che include gli ultimi vent’anni di storia italiana, con dentro il Merda incistato come uno di quei parassiti intestinali che si nutrono del peggio che l’organismo ospite è capace di produrre.
Tutti i distinguo, la privacy e il privato, il sapevo non sapevo, intercettazioni sì/intercettazioni no, tutta la parossistica verbalizzazione che quest’uomo così sorprendentemente mediocre è riuscito a focalizzare su di sé, in realtà non significa nulla, non conta nulla.
<br />
Non esistono più vere argomentazioni pro o contro il Merda, o meglio esistono, ma nessuno ha più veramente voglia di formularle o di ascoltarle: l’antica sacrosanta tiritera che parte da lontano, dall’ascesa economica del Mediocre fino alla sua presa di potere, non ci interessa più, la conosciamo & la con-dividiamo, ma non ci serve.
Ciascuno di noi è dotato, in misura maggiore o minore, di apparati neurali (tipo i neuroni specchio) capaci di farci intuire le caratteristiche salienti, ovvero la «natura» degli umani con cui veniamo in contatto, le loro intenzioni, perfino (per i più sensibili) le loro emozioni e debolezze.
Normalmente diffidiamo di un uomo che ci sorride troppo di frequente, che si copre il viso di fondo tinta, che si trapianta i capelli e se li dispone sul cranio a guisa di calotta ceramicata.
Normalmente diffidiamo di un uomo che ci mente in continuazione, che è sempre pronto a rimangiarsi e a contraddire ciò che ha appena detto, di un uomo di cui è palese l’agire sempre nel proprio esclusivo interesse.
Queste caratteristiche, nella vita di tutti i giorni, siamo in grado di percepirle benissimo e di agire di conseguenza.
Normalmente non ci piacciono i tipi vanagloriosi, quelli che parlano solo di sé, di quello che sono, di quello che hanno fatto e realizzato.
Normalmente non ci piacciono nemmeno le persone che si mostrano forti con i deboli e deboli, accondiscendenti fino al leccaculismo, con i forti e con i potenti.
Eccetera.
Insomma basterebbe che solo fossimo capaci di attivare le normali difese che abbiamo evoluto a fronte di un ambiente sociale complesso e pieno di malintenzionati, per spazzare via il Merda in un batter di ciglia.
Ma questo non è avvenuto e non avviene.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-22759723126830506032011-01-19T11:35:00.000-08:002012-02-29T00:27:21.739-08:00Ubu<br /><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Ghedini
che lesto esce dal portone, la borsa che porta si vede che è pesante.
Apre lo sportello posteriore di una macchina, sale e va via. Un lieve
sorriso, lo stesso che mostra quando entra, la solita fretta, la solita
borsa piena di carte, che lo fa pendere sul lato opposto, a
bilanciamento. Bonaiuti che entra esce da Palazzo Grazioli (vicino al
negozio di casalinghi et regali <em>Sorelle</em> <em>Adamoli</em>),
entra pure La Russa che sorride a denti cavallini, entra-esce Cicchitto,
l’aria sfatta da vecchia puttana della politica, fa dichiarazione con
voce romanesco-strascicata, come fosse cicoria ripassata in padella.
</span></span><br />
Entra-esce Gasparri, sempre anche lui in mezzo ad altri uomini, la
solita aria da uomo da niente, sale in macchina, sorride compiaciuto
alla telecamera, dice pure qualcosa, rauco e sputazzante, ma non c’è
audio. Entrano e escono da Palazzo Grazioli i vari coordinatori e
rappresentati di camera & senato: Verdini e Capezzone, quest’ultimo
avvolto nella sua disperazione di servo dell’ultim’ora, di venduto fuori
tempo massimo: difende il padrone con più alacrità degli altri, molti
dei quali in ogni caso la pensione da parlamentari l’hanno acquisita.
Macchine grosse, scure o metallizzate, che entrano-escono dai cortili
dei palazzi, con dentro uomini per lo più sfatti, ineleganti, talvolta
accompagnati da donne più giovani, graziose e deliziosamente subalterne,
in tailleurino executive. Tutti loro sanno benissimo come stanno le
cose (lo sanno meglio di tutti), fanno quadrato attorno a Colui senza il
quale, non solo non guadagnerebbero quello che guadagnano, non
godrebbero dei privilegi di cui godono, ma non esisterebbero neppure.
Sono uomini-satellite, orbitano, non hanno autonomia, non decidono loro
la traiettoria su cui disporsi, hanno scelto di farsi dominare dalle
leggi della gravitazione berlusconiana: se il centro-massa si disintegra
loro si disperderanno…<br />
<span style="font-family: times new roman;">Berlusconi che esce da
Palazzo Grazioli circondato di guardie del corpo. Stringe mani, sorride,
sale in una macchina che somiglia a un cetaceo. La macchina-cetaceo di
Berlusconi entra al Quirinale. Esce dal Quirinale. Entra a palazzo
Chigi. Esce da palazzo Chigi. Entra ad Arcore. Esce da Arcore. Entra
alla Farnesina, esce dalla Farnesina. Si vede solo questa macchina
grossa panciuta scura pesante, come sono le macchine dei potenti.
Berlusconi esce dalla macchina a Milano, cammina, fa due o tre passi,
sorride stringe mani, dice due o tre cose, saluta con la mano, immobile
nella brezza la sua calotta porcellanata di capelli. Guardie del corpo
si guardano in giro, facce serie, nervose, virili, collegate a certi
fili a spirale che entrano nei colletti. Hanno l’aria di chi protegge un
tipo importante, sembra si aspettino un attentato, da un momento
all’altro. Berlusconi rientra in macchina e va via. È un corteo di
quattro o cinque automezzi, compreso un furgone dai vetri fumé, come le
altre, del resto. Berlusconi parla dal palco Azzurro della Libertà.
Parterre di anziani che lo guarda da sotto in su, sventolano bandiere,
cantano inni. Imperturbabile la calotta porcellanata. Berlusconi
inveisce contro la magistratura. Poi sorride, saluta, abbraccia e bacia,
proferisce battute. Sembra contento, in mezzo alle guardie del corpo,
che proteggono il suo corpo. Le guardie del corpo sono uomini robusti,
alti, abbastanza giovani, belli et virili, sembrano usciti da qualche
pubblicità di lamette, dopobarba, rasoi elettrici, deodoranti maschili.
Uomini seri, accigliati, che fanno da scudo a un pupazzo post-vero &
post-umano. Il tizio che proteggono come fosse importante è coperto di
fard, le sopracciglia tinte di un colore che ricorda quello delle blatte
elleniche, rossiccio come la sua calotta di capelli bionici. Le sue
grandi orecchie tradiscono la stanchezza di dover reggere la trazione
della cute facciale. Gli uomini della scorta fanno di tutto per avere
un’aria credibile, la persona in mezzo a loro va nella direzione
opposta, perché è incredibile, contro-intuitiva, post-borghese. È
qualcosa di nuovo. È il falso che si accredita come vero senza
pretendere di essere creduto: tutti vedono che il suo aspetto è
artificiale, sanno che è artificiale e tuttavia molti gli danno credito,
perché la sua forza consiste anche nell’essere riuscito a annullare
quasi del tutto l’opposizione basilare realtà/artificio che governa le
nostre vite da un paio di milioni di anni. Berlusconi-Ubu, che risale in
macchina, riparte, riprende l’aereo, scende dall’aereo, stringe mani,
sorride, dice cose, è sempre lì, da anni, misteriosamente inattaccabile,
qualsiasi cosa dica o faccia. </span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-20661802112059979432011-01-05T11:36:00.000-08:002012-02-29T00:27:38.322-08:00Una cultura in de-composizione?<br /><span style="font-size: 14pt;"><span style="font-family: times new roman,serif;"><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Siamo
nell’era in cui il capitale può ormai comodamente sfruttare le
disparità di costi insediativi, produttivi, fiscali e di manodopera che
esistono nel mondo.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">È un fenomeno che alla lunga
condurrà al pareggiamento globale delle economie e delle convenienze,
ma per adesso produce una devastante ricattabilità della manodopera
locale.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">O accetti queste condizioni o ce ne andiamo dove più ci conviene: questo ti dicono.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Sono sotto i nostri occhi i
primi segnali di un nuovo assoggettamento di chi presta la propria opera
nei processi produttivi, industriali e non, di chi, per sopravvivere,
si arrende facendosi schiavo nelle campagne e nelle città, vergognandosi
di esistere-in-quanto-dominato* e dunque di pretendere ciò che solo
ieri era ritenuto equo, se non giusto.</span></span></span></span><br />
<span style="font-family: times new roman;">È l’avvento di una nuova
razza di dominanti che, come è proprio della così detta natura umana,
non si fermerà di fronte a niente pur di spuntare sempre maggiori
margini di profitto, pur di tenere per se la maggioranza delle risorse
di questo pianeta.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">In questa situazione una
massa incoerente di dominati non trova efficaci modi di organizzazione
politica per contrastare (in primis nelle menti) una tendenza che
accelera sempre di più e ogni giorno produce nuova sofferenza, nuova
incertezza, nuova disperazione individuale, una disperazione che non
riesce a trasformarsi in disperazione collettiva, quindi in iniziativa e
lotta. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">È un discorso complesso
perché le variabili in gioco sono molte e diverse tra loro, ma un punto
che appare cruciale non è chiedersi se, per esempio, Fiat abbia ragione
economica o no a chiedere nuove regole in fabbrica (ne ha sicuramente,
altrimenti non cercherebbe di imporle, come sta facendo), quanto
chiedersi come, in queste condizioni, si riesca ad opporsi efficacemente
all’avanzata aggressiva del capitale.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">L’unica strada risiederebbe
nel vecchio imperativo comunista «proletari di tutto il mondo unitevi»,
vale a dire in un’azione politica internazionale tesa a raggiungere un
contratto di lavoro collettivo di tipo globale, basato sulla
consapevolezza operaia, un tempo molto diffusa, che le lotte locali
interessano la totalità dei dominati, così come interessano la totalità
dei dominanti. Ma oggi questa è pura utopia.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Però immagino che prima o poi, sotto altre forme e su territori sempre più vasti, dovranno <em>per</em> <em>forza</em>
affermarsi una nuova consapevolezza e solidarietà operaie, assieme a
nuovi partiti necessariamente trans-nazionali, capaci cioè di reggere il
confronto sul piano globale.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Le premesse per certi versi
già ci sarebbero, ma il mondo operaio, privato com’è della propria
cultura storica** (quindi anche dei relativi strumenti di analisi),
sembra addormentato rassegnato silente spaventato disilluso. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">È come se alle spalle non
avesse una storia dalla quale trarre insegnamento, come se avesse paura
& noia delle parole fin qui usate, come se ci fosse bisogno di altre
parole, nuove e diverse, di altri concetti, di altre promesse.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Parole, concetti, promesse
che oggi nessuno sembra in grado di proferire, formulare, prefigurare,
mentre la promessa (falsa) del capitale resta sempre la stessa: chi si
fa ricco arricchisce gli altri.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">È come se la sinistra si
ritrovasse priva della pressione sanguigna necessaria a convincere, a
organizzare e agire, è come se le parole che ci sono tornate utili per
un intero secolo di lotte anti-capitaliste di emancipazione operaia oggi
siano diventate impronunciabili, inutilizzabili come molluschi morti e
decomposti.</span><br />
<br />
<span style="font-family: times new roman;">*Passa ormai ovunque anche
da noi, soprattutto nei giovani, l’idea, orribile & «americana», che
se non hai soldi è colpa tua e dunque ti meriti povertà e disagi. Come
se le condizioni di partenza fossero uguali per tutti, come se non
esistessero e stessero aumentando a dismisura, diseguaglianze e
privilegi.</span><br />
<span style="font-size: small;"><span style="font-family: times new roman;"><span style="font-size: 18px;">**
Oggi detta «ideologia» e come tale esecrata, come se quella liberista
non fosse anch’essa ideologia, come se il pensiero umano potesse fare a
meno dell’ideologia, cioè di sistemi di interpretazione del mondo messi
insieme nel tempo, con fatica, da uomini che vi si sono applicati con
intelligenza passione pazienza. </span> </span></span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-46895523642061060332010-12-30T11:39:00.000-08:002012-02-29T00:48:00.831-08:00Lavoro corporale<span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Adesso
davvero è netta la percezione del ritorno agli anni Cinquanta. Dico
adesso per via dell’accordo di Pomigliano. Per via di organizzazioni
sindacali che si fanno organiche alla proprietà. Per via del ritorno
dell’operaio come fisio-macchina di cui non frega un cazzo a nessuno. Un
operaio che pur di lavorare (ma il ricatto è davvero reale?) si
sotto-mette (oltre al resto) a condizioni di maggiore sofferenza
fisica*, non si sa bene se imposte per esigenze di produzione o per un
piano più vasto e astuto del padronato italiano, di cui la Fiat non è
che la testa d’ariete. </span></span><br />
Tuttavia le differenze con gli anni Cinquanta
sono parecchie. «Globalizzazione» a parte, la prima e più importante è
l’assenza di uno o più partiti politici forti capaci di rappresentare
gli operai e in genere i poveri i deboli gli sfruttati gli immigrati.
Forze capaci allo stesso tempo di lottare metro per metro per riformare
lo stato in senso sociale, egualitario, laico, civile. La seconda è la
scomparsa degli operai come classe e la scomparsa in genere di tutte le
classi, confluite in un unico pastone sociale che in comune non ha altro
che una cultura «bassa», imperniata sulle «tre effe» (Labranca): <em>fashion</em>, <em>fitness</em>, <em>fiction</em>.
La terza differenza è che il presente italiano, a differenza degli anni
Cinquanta, è fortemente mediatizzato, consentendo a chi detiene i mezzi
di comunicazione di massa di arrivare direttamente alle menti, senza
nemmeno doverle convincere razionalmente, ma lavorando sulle emozioni.
Quest’ultima circostanza ha prodotto una sorta di desertificazione delle
idee, non più variegate, diversificate e plurali, ma al contrario
monocrome e tendenti all’unificazione su una piattaforma comune: il
mantenimento della società così com’è, con l’aggiunta di una poderosa
implementazione del consenso verso l’ideologia liberista &
capitalista. Per questo motivo, ciò che sta accadendo agli operai non
suscita vera opposizione, nemmeno in quelle forze che storicamente
discendono da antecedenti social-comunisti: la desertificazione politica
e culturale le ha raggiunte e inglobate. Per questo motivo una larga
parte della popolazione non percepisce la modificazione delle modalità
d’uso del corpo degli operai nel processo produttivo e la regressione in
atto nei rapporti di lavoro come un attacco al corpo (fisico) e ai
diritti di tutti i cittadini. Per questo motivo il capitale sa che se
sfonda in <em>quella</em> fabbrica, sfonda ovunque. Per quel che resta
da sfondare, naturalmente, perché sul resto ha funzionato egregiamente
la persuasione mediatica, che sin dalla fine dei Settanta ha trovato
terreno fertile nella debolezza culturale di una percentuale di italiani
«medi», trascurata e disprezzata dalla sinistra, ma rivelatasi poi
determinante. E proprio tramite i media in questi giorni sta passando
questa immagine: chi lavora per la regressione agli anni Cinquanta si
auto-definisce «riformista», mentre quelli che difendono le conquiste
operaie degli anni Settanta vengono definiti «conservatori». Oggi, come
mai prima, le parole giocano un ruolo decisivo. <br />
<br />
<span style="font-size: 16px;"><span style="font-family: times new roman;">*Si parla molto di condizioni del lavoro manuale, ma quello della fabbrica bisognerebbe piuttosto chiamarlo <em>lavoro</em> <em>corporale</em>,
perché implica una sorta di integrazione corpo-macchina, in cui mani e
testa sono sicuramente coinvolte, ma non nei modi dell’artigiano o del
tecnico, quanto piuttosto in quelli del metalmeccanico, che è obbligato a
mettere a disposizione del processo produttivo la sua <em>intera</em> <em>entità</em> <em>fisica</em>,
incollandola alla catena di montaggio, che, per quanto modernizzata e
robotizzata, richiede tutt’ora un massiccio contributo in termini di
presenza umana, proprio lì, tra le lamiere pressofuse ancora grezze e da
assemblare… </span></span><br />
<br />
<h4 class="data">
<br /></h4>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-44672790177014092132010-12-24T11:40:00.000-08:002012-02-29T00:28:13.397-08:00Catturare e mangiare gli antenati<br /><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Un’enorme
ricciola di una quindicina di chili, l’occhio ancora lucido, vigile, il
corpo paccuto, che pare ancora pronto allo scatto, i muscoli tesi sotto
la pelle grigio rosata a squame minute, tipica dei pesci pelagici et
veloci, se ne sta sdraiata su un fianco, in disparte, con la pinna
caudale che sporge da un bancone di marmo inclinato verso la clientela,
fortemente illuminato e dotato di canalette perimetrali atte a
raccogliere acqua mista a squame e sangue – eccedenze di lavorazione,
come le interiora gettate invece in enormi secchi assieme al loro
contenuto, cioè ai residui di pasti talassici: bianche ranfe di polpo a
brandelli & semi-digerite, sacche piene di melme brucate sui
fondali, aculei di ricci strappati agli scogli e triturati dalle placche
palatali degli sparidi, morsi di asportazione dal corpo di creature
vive e semoventi, pesci ingoiati interi, assieme ai parassiti che ancora
formicolano, si torcono nelle fredde trippe di scarto – questa
ricciola, dicevo, mi appariva stamattina integra e nuda, tornita
giovanile sexy, in mezzo allo sfasciume ittico che la circondava e che
come al solito mi faceva pensare al pescato che si affastella in certe
nature morte napoletane del Seicento. </span></span><br />
Lì accanto un vecchio dentice
prossimo alla putrefazione, ma ancora inspiegabilmente costretto ad una
posa ricurva da un pezzo di spago teso tra le branchie e la coda, e poi
un salmone ormai quasi interamente ridotto in tranci. La gente si
accalcava sotto le lampade – come intorno a un tavolo anatomico durante
una lezione appunto di anatomia, del tutto indifferente al bios
martoriato che aveva sotto gli occhi, al massacro dei propri antenati
turpemente esibito – si accalcavano a dire Mi mette via questa spigola?
Ed effettivamente c’erano varie spigole sul banco, tra le quali ne
spiccava una enorme, con le branchie rosse di un sangue sieroso, che
colava lievemente giù per la discesa del marmo, per finire, come si
diceva, nella canala di gronda. Fratelli pesci, mi veniva da pensare. A
me che ero pure lì per un paio di tranci di nobile pesce spada, da
cucinare stasera previa preparazione di spaghetti mescolati a piccoli
molluschi bentonici, detti vongole veraci, ormai rari, che ieri
estrassero per me da un bacile pieno d’acqua, un mucchio di gusci
semiaperti da cui si protendevano decine di sifoni bianchi. Solo quando
il pesce selvaggio sarà del tutto estinto, allora smetteremo di
cacciarlo in massa e ci assuefaremo a quello di allevamento, come da
secoli abbiamo fatto con la carne di mucca. Intanto sarebbe bene
sequenziare e mettere via il codisce genetico delle specie che
sicuramente si estingueranno, non solo per poterli ri-produrre in
futuro, ma per conservare memoria genetica di come eravamo fatti noi, un
tempo. <span style="font-size: 18px;"><span style="font-size: small;"><span style="font-family: times new roman;"> </span></span></span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-62967052283717937682010-12-17T11:41:00.000-08:002012-02-29T00:47:19.956-08:00Violenza e democrazia: un appunto<br /><span style="font-size: 18px;"><span style="font-family: times new roman;">Invece
di prendere atto et riflettere sul significato di ciò che è accaduto,
molte voci si levano alte a condannare la violenza della manifestazione
del 14 dicembre scorso. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">L’argomentazione «moderata»
tipica, peraltro già ampiamente usata da almeno 50 anni a questa parte
in occasione di episodi analoghi, è la seguente: bene fanno gli studenti
a manifestare pacificamente i loro disagi e la loro opposizione, <em>ma gli atti di violenza li fanno passare dalla parte del torto</em>, così come dalla parte del torto li fanno passare scioperi, occupazioni, interruzioni della didattica, eccetera.</span></span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Si disce inoltre che la
manifestazione violenta viola «le regole della convivenza democratica» e
che non verranno tollerati altri episodi del genere (leggi: se vi
azzardate a scendere di nuovo in piazza vi faremo un culo così). </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Poi da «sinistra» si parla di
infiltrati, supponendo azioni provocatorie (mai in verità escludibili a
priori) da parte di elementi della polizia mimetizzati da studenti,
assolvendo quindi i giovani come non-cominciatori degli scontri e
comunque come non-responsabili degli atti più violenti che sarebbero
stati compiuti da consumati provocatori in borghese manovrati da opachi
organi dello Stato. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Invece di riconoscere che
migliaia di studenti si sono apertamente e coscientemente (e
politicamente) contrapposti alla polizia in modo ineluttabilmente
fisico, si cerca di de-responsabilizzarli attribuendo violenza e
distruzioni a soggetti alieni o a gruppi estremisti pre-organizzati:
sicuramente ci saranno stati, ma la grande massa schierata in Piazza del
Popolo era autenticamente studentesca.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Pochi sono quelli che se la
sentono di riconoscere alla violenza «di piazza» – il cui teatro è lo
spazio pubblico dell’urbs –, fatte salve certe condizioni, uno status <em>democratico</em>,
in quanto unico modo per segnalare e marcare in modo forte
all’«opinione pubblica» (alla quale è sensibile il potere politico)
l’esistenza di uno stato di sofferenza di una parte più o meno
consistente di cittadini. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Insomma la violenza è il
linguaggio politico della disperazione/esasperazione/rabbia e assume un
significato forte quando non c’è altro modo di esistere politicamente:
si rammentino le rivolte degli immigrati a Rosarno e altrove, che hanno
fatto emergere una realtà altrimenti poco conosciuta e hanno portato ad
alcuni provvedimenti, non solo repressivi. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">In particolari contingenze
storiche, come l’attuale, caratterizzata da de-politicizzazione,
inerzia, indifferenza et cinismo di massa, la violenza assume valore
dirompente e conferisce status politico-mediatico a chi non ce l’ha. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Finora il movimento degli
studenti è stato considerato, sia da destra che da «sinistra», in modo
per lo più paternalistico: Hanno ragione i nostri poveri ragazzi, che
studiano in una scuola e in una università degradate e prive di risorse,
cui non promettiamo altro che un futuro da precari, eccetera. Ebbene,
dopo due anni di movimento, martedì scorso questi ragazzi hanno emesso
due segnali forti, uno verso l’esterno e uno verso l’interno del
movimento. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Il primo dice: prendete atto della nostra esistenza in quanto soggetto politico. </span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Il secondo dice: ci siamo,
esistiamo, siamo riusciti a stornare lo sguardo dal Palazzo, affermando
l’esistenza di qualcosa al di fuori di esso, organizziamoci, possiamo
crescere, ma a condizione di non stare al gioco: questo può essere un
inizio, qualcun altro seguirà il nostro esempio.</span><br />
<span style="font-family: times new roman;">Eccetera. </span>Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-82732035107748093882010-12-14T13:45:00.000-08:002012-02-25T13:46:07.317-08:00Amoi e BaronisiLe grandi rocce che emergono dal mare, l’estraneità della forma che è capace di assumere la terra, la materia secca, rispetto alla non-forma dell’acqua, della materia umida. Ma non è neanche vero che l’acqua non ha una forma, anzi: la sua capacità di adattarsi, di risentire della forza gravitazionale schiacciandosi sulla superficie del pianeta, ci fornisce la preziosa nozione di orizzonte, cioè della linea retta orizzontale. Ed è sempre usando l’acqua e osservando la postura dell’acqua che ancora oggi noi definiamo ciò che è orizzontale, ciò che è «in bolla», cioè parallelo all’orizzonte e perpendicolare alle più brevi e dirette linee di forza che virtualmente ci scaraventano verso il centro della Terra. Per questo, le rocce emergenti dal mare, le isole, soprattutto se osservate da lontano, ci appaiono come forme irregolari dominate apparentemente dal caos, ma innestate su una superficie liscia, regolare, compatta, geometrica. Fredda e azzurra l’acqua, calda e bruna la terra. Trasparente l’acqua, attorno alle rocce isolate, precipita nel nero sconosciuto della profondità, dove si trovano le radici immerse di quell’oggetto singolare, estraneo al contesto, che è un’isola. Opaca invece la terra & porosa, solida, non-penetrabile. Al piede delle falesie dove il mare respira incessantemente, vedi il secco a contatto con l’umido, l’aria che si mescola all’acqua e viceversa, vedi che questa zona incerta e impura è un’opportunità per milioni di esistenze infime che incrostano la roccia, vi si aggrappano, brulicano. Vedi che lo scoglio – se ne sta tra sé e sé a una certa distanza dalla terra madre, isolato nell’acqua profonda – vedi che quello scoglio è ormai un mondo autonomo, una testimonianza disperata di ciò che è terrestre persa nell’universo dell’acqua. Vedi i piccoli cespugli, i ciuffi arditi di vegetazione crescere nelle fenditure, lassù, in lato verso la sommità, dove il salmastro arriva più rarefatto a distruggere e bruciare quel poco di vita che attecchisce, dove le cuspidi di roccia si imbiancano del guano degli uccelli marini, dove qualche falco della regina ha stabilito il suo nido e lo difende ferocemente da ogni intruso. Penso ad Amoi, la Grande Roccia Spaccata che se ne sta nel vento, su, all’imboccatura dello Stretto e, se sei in barca, sempre devi decidere se vuoi mettere la prua all’esterno o all’interno, cioè nel passaggio tra scogli più piccoli e gregari come fossero una scia di frammenti lasciata dal distacco di Amoi dalla testa nord dell’Isola, a farsi sentinella orientale di quel passaggio di mare, ma profondo, mentre a ovest, proprio in mezzo alla risacca di ponente c’è la cuspide di Baronisi, che sorveglia i branchi di tonni e di ricciole in autunno e in primavera quando si insinuano veloci in quel discontinuo traumatico della terra e una qualche ragione l’avranno, per farlo. Lì è dove i cormorani accoccolati sui massi emergenti presso la scarpata si confondono col grigio delle rocce, annerito dalla crosta di molluschi e alghe, indifferenti al vento che spazza il mare e solleva mulinelli di acqua nebulizzata, schiaffeggiandoli sul volto enigmatico degli uccelli come per urlargli in faccia, Via! Cosa cazzo ci fate qui? Andate via, cercatevi un posto migliore per vivere!Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-65522453076693659162010-12-08T13:46:00.000-08:002012-02-29T00:27:54.602-08:00Franco diceva«Era necessario che milioni di persone patissero il socialismo reale perché altri milioni potessero sognarlo. Il gulag è stato l’unico valido contraltare al capitalismo selvaggio. Non saprei dirti perché, ma è così. Finché è esistita l’Unione Sovietica – benché il suo sistema politico fosse vituperato dagli stessi partiti comunisti di quasi tutti i paesi e benché costituisse ormai il fallimento comprovato di ogni idea di un’eguaglianza concretamente realizzabile tra gli uomini – finché è esistita l’URSS, dicevo, in Occidente è potuta sopravvivere un’opposizione forte ed efficace al capitalismo. Finita la Russia Sovietica, finito tutto: la diga si è frantumata e la barbarie dilaga sulla terra nelle forme più varie. Occorreva che il popolo russo, e con esso quello dei paesi del blocco sovietico, soffrisse sotto il totalitarismo comunista, perché da noi si potesse tenere a freno il capitalismo e la destra ultra liberista e catto-conservatrice ad esso collegata. Un giorno qualcuno dovrà riconoscere ai russi il loro sacrificio. Un giorno qualcuno dovrà pure dirci, al di là di tutto, al di là del Gulag, di Stalin, del KGB, cos’era davvero il socialismo reale. Io so solo una cosa: l’eguaglianza non si può materialmente costruire nella democrazia: gli uomini vanno costretti all’eguaglianza, il Gulag non è un incidente di percorso, è parte costitutiva, integrante e necessaria del Comunismo. Questo bisogna dirselo chiaramente. Il passo logico successivo sarà chiedersi freddamente se il Gulag è un prezzo accettabile oppure no. Io dico che lo sarebbe se la contropartita fosse un’eguaglianza reale, ma purtroppo il Gulag porta con sé una quantità di storture inaccettabili, tutte collegate alla così detta «natura umana» (chi ne ha l’occasione ne approfitta per prevalere), a partire dagli intollerabili abusi delle oligarchie del partito e delle polizie segrete. La non-democrazia consegna il potere fatalmente nelle mani di pochi e quei pochi ne approfitteranno, senza nessuna chance da parte della maggioranza dei dominati di poterli scalzare… La forza della democrazia, come diceva qualcuno, non sta tanto nell’avere il diritto di eleggere il governo che ti piace, quanto nel diritto di abbattere quello che non ti piace. Ma anche il costo di questo diritto (genericamente definito “libertà”) è altissimo, si chiama diseguaglianza & sfruttamento. Qualcuno prima o poi dovrà guardare dentro l’idea democratica e, a partire dalla critica al concetto di maggioranza, dircela per quello che è...».Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-63186323274489926782010-11-30T13:46:00.000-08:002012-02-29T00:44:08.027-08:00A proposito di scazzi all'IkeaÈ bello litigare da Ikea, in mezzo alla gente, nel calore insano del riscaldamento, con il giaccone addosso, le ascelle roride di sudazza, l’ansia che monta (la si contrasta con un ansiolitico in più rispetto alla dose giornaliera cui ti sei assuefatto), il calo di zuccheri in atto(lo si contrasta con un pacchetto di crackers Misura), un senso ultimativo di disperazione consumista che ti scorre nelle vene, un voler andare via di lì, fuori da quel contenitore pieno di gente, di coppie con regazzini, un fuggire via per ritrovare l’aria gelida che soffia nel parcheggio carezzarti ascelle e schiena, il parcheggio dove il tuo corpo ritroverebbe l’equilibrio termico che dentro sta perdendo, la bussola mentale deformata da forze gravitazionali anomale, la radiazione ikeica che ti fa odiare così tanto la donna con la quale sei venuto qui, quasi allegramente, una mattina spensierata di sabato (l’errore di venirci di sabato) del terzo millennio, quando hai prima imboccato la Tangenziale, poi, già leggermente stressato dall’intaso, la Consolare Rinforzata, verso il GRA, poi il GRA stesso, attento alla contro-strada, attento a non imboccare la direzione Firenze, attento al microscopico cartello Centro Commerciale, attento ad immetterti nel raccordo giusto, la corsia giusta, alla velocità giusta – sentendoti già stupido, avendoci già voglia di girare, di invertire la marcia per tornare al mondo urbano conosciuto, quello che è sotto il controllo della tua mente –, per poi finire nel Grande Parcheggio Stracolmo, dove c’è un carosello continuo di auto in cerca di uno stallo e dopo un po’ lei ti dice LÌ!, ma lì c’è già qualcuno, oppure, peggio, lì non si può parcheggiare e però lei insiste, dice che sei un legalitario, che fosse per te non parcheggeresti mai in una città dove regna una semi-legalità perenne, che la semi-legalità va accettata e praticata, dici che finché la macchina la guidi tu, il parcheggio lo scegli tu, poi lo trovi, lei dice Checculo checciai: quindi la tensione si allenta fino alla delizia della Scala Mobile, fino all’ingresso dove subito pisci in cessi non italiani: sei in Svezia e ciò è bene, è una cosa che ti fa sentire migliore, la concreta sensazione di essere all’estero, tanto che ti aspetti che i ragazzi svedesizzati che lavorano al bar non parlino la tua lingua: poi incamminarsi lungo la striscia gialla, a te interessa il piano di sotto, ma per arrivarci devi farti tutto il piano di sopra, o almeno credi sia così, inizia la Prova Ikeica dalla quale sei ben determinato a uscire vivo, pensi che, se ti viene un infarto qui, finirai in un ospedale svedese, sistema sanitario svedese, magnifiche infermiere svedesi senza tatuaggi né piercing… vai avanti così, superando a passo svelto il reparto bambini, che è la prova estetica più pesante, arrivando infine alla scala che scende di sotto, ma già col bustone pieno di roba che non ti serve, lo sai che non ti serve, niente di ciò che è qui realmente ti serve, lo sai ma non te ne importa, sei qui per altri motivi, anche se non conosci neanche quelli, diciamo che sei qui e basta, cioè sei qui perché si spende poco: tutto va quasi bene, cioè si contiene a un livello accettabile di stress, finché per qualche motivo «futile», comincia il primo critpto-litigio, magari su uno scambio tipo Ma che ci devi fare con quello? Niente mi piace, costa solo 2 euri e 70. E poi già ce l’abbiamo. Quello che abbiamo non mi piace. Ma è una cazzata, sono soldi buttati. Sarò padrone di buttare i miei soldi? E poi però l’articolo in questione vai a rimetterlo a posto: la debolissima motivazione che ti induceva a prenderlo si è subito spenta, il piacere dell’inutile è lesionato, ti vendicherai presto e quando lo fai, lo fai al piano di sotto, reparto tende, scazzo irrimediabile, ultimativo, apocalittico: ringhiate insulti a voce bassa, ma vi sentono lo stesso, vi guardano, qualcuno sorride: vorresti dirgli Chetteridi? Sei furioso, senti che vuoi stare solo per il resto della vita, decidere ogni cosa da solo, entrare e uscire all’ora che ti pare, mangiare quello che ti pare, mozzarella e prosciutto e fagiolini per il resto dei tuoi giorni, senza dover intavolare continue trattative con questa stronza che vuole l’esperienza gastronomica, che compra e cucina pesce, con la casa che sa di pesce. Sogni di essere totalmente padrone di fare, dire, comprare ciò che vuoi, di scanalare la tv per un’intera serata, di accumulare libri non letti in pile altissime senza che nessuno ti dica Ma tutti quei libri? Che te li compri a fare se non li leggi?Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-79796899176200112852010-11-23T13:47:00.000-08:002012-02-25T13:48:04.711-08:00Sogno dell'amico mortoC’erano delle cose da fare prima di andare via. Ma non si riuscivano a finire. Niente si conclude, il tempo stringe, qualcosa sta per partire e noi lo perderemo e qualcuno ci rimprovererà per averlo perso, questo qualcosa. Quindi affrettarsi. Camminare via di qui a passo svelto, lunga la spiaggia, sulla battigia dove la sabbia è più scura et salda. Vieni che facciamo tardi, scavalcare la gente stesa al sole, ragazze, coppie allacciate, con un balzo. Ma il cielo è coperto, non fa caldo, qualcosa sta per finire, qualcos’altro partirà per chissà dove, occorre andare via di qui, via da questa spiaggia. No, no, non voglio tornare indietro, lo so quello che abbiamo dimenticato, ma ti prego tornare indietro no, non è possibile. Quella cosa lasciala. Lo so che è importante, ma lasciamola lì, andare via di qui è prioritario. Non lo vedi il buio che avanza? Non ti accorgi di quanto siamo stanchi a furia di correre? Ancora non sai quanto è brutta questa città di mare? Ancora non ti accorgi di quante volte abbiamo fatto di corsa questa spiaggia piena di meduse morte, di barche insabbiate, erose, di gente allegra che saltella nell’acqua calda, torbida, del bagnasciuga. La vita umana è a esperienza limitata, non possiamo sprecarla così. Dicevi che non ti importava perché eri già morto. In effetti era così, ma non pareva. Io lo sapevo, ma ti trattavo come fossi vivo, anzi eri tu a trascinarmi avanti e indietro mentre qualcosa, lassù dietro le case della città alta, stava per partire e noi l’avremmo perso, treno o pullman o chissà cos’altro, noi l’avremmo perso. Ormai questo era sicuro mentre intorno a noi aumentavano le macerie e niente poteva più essere o tornare nuovo, niente poteva più riprendere i suoi smaglianti colori originali, i mosconi di salvataggio erano di un rosso cupo, quasi nero, gli ombrelloni grigi, la canotta del bagnino era blu sporco, spento, sbiadito. La faccia del bagnino scura di sole, piena di rughe. Tutti quei bagnini che conoscevo per nome sono tutti morti, tutti andati via a nuoto, verso il largo, nuotarono assieme oltre la linea dei frangenti di libeccio, oltre la diga foranea, verso un orizzonte incerto sfilacciato, da cui spuntava la sommità delle Isole. Per questo tutto diventava scuro sulla spiaggia, perché non c’erano più vecchi sapienti calmi bagnini a governarla, anche uccidendo pipistrelli, se occorreva. In effetti che ci faceva il pipistrello nel sole di quella mattina a mezzogiorno? Spaventava le signore e le ragazze che indossavano antichi bikini classici, svolazzando basso sopra le loro teste. Da dove veniva? Fu un bagnino, anziano imperturbabile onnisciente (lui sapeva tutte le cose della spiaggia, sapeva anche dei pipistrelli a mezzogiorno), che con un asse di legno fece un mezzo salto e, Tac!, lo colpì al volo. La botta l’aveva mezzo ammazzato, la sua colpa era di essere un pipistrello a mezzogiorno. Era nero e piccolissimo, sulla sabbia rovente. Qualcuno l’aveva preso in mano, le ali quasi trasparenti, il minuscolo grugno informe, le grosse orecchie, gli occhi chiusi. Sparì alla vista nel capannello di gente. Noi andavamo via di corsa senza più speranza di prendere la corriera. Saremmo rimasti lì, sul bagnaticcio lercio della battigia, in mezzo a quelle macerie.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4790818627098364831.post-44323845337787563342010-11-14T13:48:00.000-08:002012-02-29T00:46:02.221-08:00L'arte come "musica leggera per ceti medi"Tornato domenica al MAXXI, messomi in fila lungamente assieme a frammenti di Ceto Medio Riflessivo, alcuni con odiosi ragazzini al seguito – ragazzini poi ritrovati al primo piano tutti assieme, seduti per terra in cerchio e intrattenuti da appositi addetti, che tracciavano sgorbi su pezzi di carta extra-strong forniti dal museo sotto l’occhio amorevole dei genitori, oppure ritrovati in scampoli per le sale, come la bambina esortata dalla mamma ultra-trentenne ad entrare nel triangolo tracciato a terra di De Dominicis, mentre la mamma esclamava Ecco adesso sei un’opera d’Arte! – et pregustandomi l’Ingresso Gratis che spetterebbe di diritto al sessantacinquenne, per scoprire che, contrariamente metti alla GNAM, lì al MAXXI il sessantacinquenne entra gratis solo il martedì: Va bene, esticazzi? mi sono detto, ho sempre pagato il biglietto ovunque e l’ho fatto volentieri, posso pagare pure oggi: però già mi girava storta, già quel poco di ricettività e disponibilità all’Arte mi svaniva e guardavo, non soltanto il complesso architettonico (insolito monumento alla stupidità del ceto sociale trendarolo & colto cui è destinato), ma tutta l’Arte lì esposta, come fossero un’unica grande costosa idiozia: anzi, domenica scorsa questo sentimento si allargò non solo all’Arte tutta, ma in generale a tutti gli artisti: percepivo (per la prima volta in vita mia) l’inutilità e la stupidità dell’Arte in quanto tale, la scemenza di andare a vederla, soprattutto nello scoprire che la mostra di De Dominicis, che ero corso a vedere, è ancora su, da mesi e mesi e che De Dominicis che un tempo mi convinceva e che seguivo fin dalla sua prima mostra all’Attico negli anni Sessanta, di colpo non mi piaceva più, anzi mi infastidiva: Che io sia diventato un arido insensibile? Che non sia più capace di stabilire un contatto con l’Arte contemporanea? mi chiedevo, ripensando alle emozioni provate invece l’altr’anno al Castello di Rivoli: domenica scorsa la sensazione era desolante e forte come la voglia di andare via di lì, la voglia di mettere spazio tra me e l’igloo di Merz, tra me e un quadraccio di Kiefer, tra me e uno stanzone foderato di pelle di Penone, tra me e un ennesimo arazzo di Boetti (lui e le ricamatrici afgane…), tra me e una infinita sequenza di auto-ritratti fotografici di Ontani: la voglia di mettere spazio tra me e quattro grandi disegni di Gilbert & George azziccati dentro un cubone bianco, inabitabile, spazio tra me e tre lavagne di Beuys, tra me e il Fiume con foce tripla di Pascali, che pure mi piaceva, tra me e Aurora di Mario Airò che anch’essa mi piaceva, forse l’unica cosa che nella sua ingenua insipienza mi piaceva davvero: mettere spazio tra me e tutte le altre opere presenti nella collezione permanente, tristemente e incomprensibilmente accostate l’una all’altra et suddivise per temi, mentre le collezioni permanenti io le concepisco esclusivamente disposte in ordine cronologico: ma qui, seguendo questo criterio si sarebbero visti troppo bene i buchi e le manchevolezze e le mancanze, soprattutto di opere del XXI secolo, come promette il nome stesso dell’egotico sfracello architettonico a firma dell’architetto-star Zaha Hadid. Ci aggiravamo io ed A. cercando le targhette delle opere, sempre situate molto distanti dal loro referente, laggiù in fondo, oppure dietro l’angolo, tutte con una debita e odiosa schedina critica per spiegare al bourgeois in visita perché quell’opera sarebbe importante e soprattutto cosa significa, cosa rappresenta, insomma chevvordì: questo compito se lo assumevano anche ragazze affaticate che parlavano ad alta voce a gruppi di visitatori ansiosi di sapere & capire: ma se sapere si può e forse si deve, capire proprio no, non serve, non è richiesto, l’Arte, sourtout quella contemporanea, non lo contempla, non vuole essere detta, ci lascia soli, intimidendoci col proprio insistito enigma: e però, senza nulla volere togliere all’Arte, in definitiva potrebbe trattarsi, come percepivo domenica scorsa, di un’unica & grande, talvolta persino convincente, cazzata: sì, l’Arte contemporanea – così auto-compiaciuta, priva di committenza, senza alcuna funzione sociale, relegata nei musei e nelle gallerie, attufata nelle collezioni, nei caveau delle banche, separata dal contatto con «le masse» (alle quali dell’arte nulla cale, a meno che non sia «simpatica»), se si eccettuano appunto scampoli di Ceto Medio Riflessivo & international che misteriosamente la cerca e forse ne gode, anche se il più delle volte li vedi che sono lì ad auto-torturarsi nella visione della sequenza auto-referenziale delle opere – è proprio una cazzata, come testimonia questo imbarazzante, enorme, accrocco a forma di igloo, in ferro, vetro incrinato & morsetti, insomma «tecnica mista» (ah, la formula «tecnica mista), a firma del defunto signor Mario Merz, artista riconosciuto.Francesco Pecorarohttp://www.blogger.com/profile/14586058226038451332noreply@blogger.com0