lunedì 14 marzo 2005

Quando eravamo comunisti

Cosa ha significato per noi essere comunisti? Intendo per noi giovani italiani nati alle soglie della seconda metà del Novecento. E in che modo lo siamo stati? E cosa siamo ora? Occorre riandare con la memoria alla percezione del paese e della società e della famiglia e della scuola in cui vivevamo, in cui sperimentammo i nostri primi desideri e le nostre prime volontà, in cui si formò il nostro primo ed esigente senso morale. Ciò che percepimmo allora fu che quel paese, quella società, quella famiglia, quella scuola erano tutte insieme, e ciascuna per la sua parte, contro di noi, radicalmente contro di noi. Si trattava di un intreccio inestricabile e a tutta prima incomprensibile di veti, prescrizioni e menzogne: un mondo duro e mellifluo allo stesso tempo, dove c'era poco da scherzare. Un mondo pieno di crocefissi appesi alle pareti, i giornali pieni di fotografie di politici che si fregavano le mani, un mondo dove si sparava agli operai in piazza, una televisione dove ogni cosa veniva elusa, aggirata, non detta, falsificata. Come oggi. Politici, preti, professori e padri erano una cosa sola, costituita contro di noi, una sola fortissima coalizione il cui fondamentale messaggio suonava così: sarete ciò che noi vogliamo che siate. Era un diktat silenzioso, implicito alla nostra condizione di figli, di giovani, di studenti, ma mai, o quasi mai, pronunciato apertamente. Quello che tacitamente ci veniva imposto era di prepararci alla continuazione dell'esistente, ma l’esistente era, per molti di noi, assolutamente inaccettabile. Da lì cominciò l’opposizione, che fu prima nei comportamenti e poi, tendenzialmente, nell'unico modo realmente alternativo e antagonista di pensare il mondo che fu possibile reperire allora: il comunismo nelle sue forme più estreme. (...?)

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