mercoledì 4 maggio 2005

Il sogno di Ortensio di andarsene

Ho letto sui giornali che lo scrittore Marco Lodoli fu compagno di scuola del "mostro" Izzo in un collegio romano di preti. Qualche anno prima, feci la stessa esperienza, ma in un'altra scuola, sempre di preti, sempre per borghesi coi soldi. I personaggi descritti da Lodoli sono quasi identici a quelli che frequentavano la mia scuola. Ne scrissi in questo racconto, un paio d'anni fa. * Genovese guarda dritto davanti a sé ma, con le mani di fianco, mima sotto il banco un cazzo che fotte un culo, o una fica, non si sa. L’indice e il medio della destra inseriti in un anello sfinterico costruito col pollice e l’indice della sinistra vanno sù e giù. Genovese emette dalle labbra un risucchio leggero quasi impercettibile. No basta che mi arrapo, mi arazzo, me ne vengo e sgodo -, è Bertelli che bisbiglia defilato, piegato in avanti sul banco a fianco, anche lui fingendo di seguire la lezione e lanciando occhiate e risatine. Dietro a lui uno dei gemelli Capece osserva la scena e pure lui ridacchia. Ha una bella caccola tra il pollice e l’indice e dice: guarda che caccola. Bertelli si passa più volte la mano sul pacco, facendo un risucchio anche lui tipo Ishhhh... aahhhh... ishhhh... ahahhhhahha... Oggi c’ho già i coglioni duri, devo farmi una pippa, sussurra Renzulli nascosto dalle spalle e dalla testona di Genovese. Te la fai qui? Dice Bertelli abbassandosi dietro le spalle di Piazzi che gli siede davanti. Mannò, non c’ho niente per arraparmi, manco un giornale. Magari dopo salgo un momento in camera e me la faccio. Genovese seguita con la sua pantomima fottitoria, ridacchiando con la mano davanti alla bocca. Ogni tanto dice: suchii, suchii. E sospira. Bertelli e Renzulli e il gemello Capece ridono. La lezione su Tertulliano va avanti sgorgando lenta dalla cattedra come una pappa grigia e dopo un po’ la noia avvolge ogni cosa, frè Ortensio compreso. Da sempre sono abituati che a questa specie di frate-prete non frega un beneamato cazzo di quello che si fa e si dice a scuola. Lui è lì come se stesse dietro allo sportello della posta. Solo che è cattivo e vendicativo e maligno. Sotterraneo e indiretto. Non cattivissimo, né malignissimo, che per esserlo ci vorrebbe un po’ di energia. Ma frè Ortensio sembra che non ce l’abbia di suo. Se ne sta lì, sotto il suo riporto, il suo lunghissimo riporto appiccicato alla testa si direbbe con la colla, lo sguardo senza vita dietro le lenti molto spesse: eppure dentro quella cosa lì si agitano lingue di fiamma che ogni tanto senza preavviso eruttano materia vitale. Ogni tanto gli occhi bolliti di Ortensio si animano dietro le lenti spesse. La bocca piegata amaramente da un lato, le labbra tumide e bagnate, rosse, improvvisamente ridono. E si lasciano sfuggire parole inconsuete, leggere, commenti su cose d’attualità che rivelano attenzione e curiosità. Beh, insomma, nessun interesse per la scuola e per i suoi studenti. Piuttosto qualcosa di sbarazzino che non ha nulla a che fare con il suo essere qui, ma che rivela un desiderio pazzesco di essere altrove e fare un’altra vita. Ma dura poco, e si torna subito all’ottundimento di sempre. Bertelli, Genovese e Renzulli sono alti e ben vestiti. Secondo i canoni cioè. Roba fatta su misura. Doppi petti grigi o marroncini, con giacca lunga avvitatissima e tasche e taschine un po’ oblique con la patta, quattro bottoni e revers stretti. Camicia bicolore: il collo e i polsini azzurri e il resto bianco. Cravatta reggimentale annodata stretta al collettone a due bottoni. Pantaloni stiratissimi col risvolto e riga perfetta. Gemelli d’oro. Stivaletto con fibbia. Fiumi di colonia inglese, Dunhill. Marlboro, Kent, Pall Mall, Winston. Accendino d’argento, pure Dunhill, oppure il Ronson aerodinamico. Questo Ronson fa la sfiammata alta e ci si può giocare ad accenderlo e spegnerlo. Portamonete Gucci a fermaglio, anch’esso d’argento. Fazzoletto tipo bandana ripiegato nel taschino, con due punte. Ray ban in tasca nell’astuccio. Stanno seduti nei banchi singoli, ingessati nei loro completi, fedeli al motto: eleganza ovunque e a tutti i costi. Giocano nella squadra di basket, come i gemelli Capece. Se non ché i gemelli Capece non sono così elegantoni, anzi. Vengono a scuola in cappotto e golf, pantalonacci sformati di velluto, scarpe deformate all’insù a becco di papera. Aspirano all’eleganza di quei tre, ma non sanno nemmeno da dove cominciare. Non sono poi molte le cose che bisogna avere. Ma quelle bisogna proprio averle. Cioè non una, ma tutte. Non puoi farti fare un vestito così e poi metterti una camicia di Schostal col colletto piatto, schiacciato e aperto come un kaki marcio. Così come non puoi comprare una cravatta non-reggimentale, magari di stoffa scozzese. Le scarpe: puoi non comprare lo stivaletto basso con fibbia, ma allora devi avere almeno un paio di Clarks ai piedi, oppure un mocasso Lotus, che so. Sono in molti ad aspirare all’eleganza. E molti parzialmente ci riescono, ma sempre sbagliano qualche dettaglio, naturalmente. Gli unici perfetti e ben consci di essere perfetti, giusti in ogni particolare, sono quei tre, piazzati vicini agli ultimi banchi in una specie di zona franca, di loro territorio, dove si possono fare cose, che in altre zone dell’aula non sono assolutamente fattibili. Tipo farsi una pippa. O dormire. O leggersi un giornaletto. I tre non dicono qual è la regola dell’eleganza, non dicono cosa ci si deve mettere, dove si deve comprare, i colori e le stoffe. Ti accorgerai di aver fatto centro solo se qualcuno degli eleganti ti fisserà con interesse una giacca o un paio di pantaloni. Gli eleganti godono di privilegi, parecchi privilegi. Sono lì in quella scuola perché sanno giocare a basket meglio degli altri. E sono altissimi. Specialmente Genovese. È un calabro di due metri e cinque centimetri, pesante e stupido, ride sempre, ma in campo serve, eccome. Si muove male, ma si piazza sotto canestro e mette dentro. Serve alla squadra che gioca in prima serie, mica cazzi. Lui è un pivot come se ne trovano pochi. Di così alti voglio dire. Gli altri due giocano meglio, sono più agili, veloci. Sembrano più intelligenti di Genovese, e sono, come lui, convittori. Il convittore è una razza a parte in questa scuola. Vive in collegio, non può uscire, i suoi problemi sono diversi da quelli degli esterni, che invece se ne vanno a casa tutti i giorni. Fanno una vita inimmaginabile, i convittori: stanzette e corridoi, cortili sale studio mensa e poi in chiesa al mattino e alla sera, sala tv, studio, telefono a gettoni, allenamenti e palestra, due tiretti al pallone in cortile, sigarette e un mare di pippe, sempre. Libera uscita al pomeriggio, dopo una certa ora. I convittori non parlano mai della loro vita con gli studenti esterni. Ma forse è proprio per reagire alla sua vita schifosa che il convittore si acchita per scendere in classe. È per combattere contro l’effetto reclusione, contro la tendenza a stare in pigiama sempre, come un ricoverato. E d’altra parte la cravatta in questa scuola di preti è obbligatoria. Si tollera al massimo un golf dolce vita sotto la giacca. O un cardigan, al posto della giacca, ma allora la cravatta devi averla. Insomma, ci sono regole qui, mica cazzi. C’è l’Ispettore che gira, sorveglia e vede tutto. È un omone meridionale, che per chi non lo conosce sembra bonario, ma quando vuole colpisce senza esitazioni e ti fa un culo così. Non si può marinare neanche un giorno, neanche per sbaglio: alla prima assenza ti telefonano a casa dopo neanche un’ora e controllano. Tutte le mattine mezz’ora di religione per tutti e per tutto il tempo che si frequenterà il collegio. In pratica è catechismo da mandare a memoria sul quale si viene continuamente interrogati e che perciò stesso nessuno trattiene e impara. I giorni festivi messa obbligatoria in collegio alle 8 anche per gli esterni. Se non fai la comunione tutte le domeniche te ne chiedono il motivo, prima o poi. È un sistema totale, un accerchiamento, un assedio. Non ti mollano e si fanno pagare per questo. Alla domenica in cappella - quando hai appena fatto la comunione obbligatoria e stai lì con la faccia tra le mani, perplesso su cosa dovresti provare e che invece non provi e su cosa dovresti pensare e che invece non pensi - ti si avvicina di soppiatto Luzzardi. E ti sibila: Dì porcoddio! Dai dì porcoddio, che ti costa. Dì porcamadonna. Adesso devi dirlo, sennò dopo che gusto c’è? Se ti viene da ridere, e ti viene sicuramente da ridere, seguita così per un pezzo invitandoti a pensare alla fica della Madonna e ad altre cose così. Luzzardi, anche lui ha appena fatto la comunione obbligatoria e ha appena cantato gli inni obbligatori. Lui se ne frega, non si oppone mai apertamente ai preti. Non manifesta mai alcuna opinione di fronte alle autorità del collegio. Ma non ne fa passare una, niente sfugge al suo tremendo sghignazzo allucinato, anarchico, blasfemo, che stranisce gli altri: non sanno se ridere o no. Letteratura latina, italiano, storia, religione, eccetera, tutte le materie di frè Ortensio sono inavvicinabili per noia. Lui le sporca di noia, le sbava con la sua sciatteria e la disonestà evidente di quel suo essere una specie di prete, senza essere prete. La sua mancanza di passione e di interesse cuoce ogni materia affidata a lui, rendendola stopposa e insapore e difficile da ingoiare. Nauseante. Questa noia cola giù sulla classe: le sei lampade a globo sono tutte accese perché fuori il sole sembra si sia dimenticato di sorgere, oggi. Piove e fa freddo e il tempo non passa. Tutto è completamente fermo, tranne le due dita della mano destra di Genovese che seguitano a fottere la mano sinistra e Bertelli che si massaggia il cazzo. A quest’ora tutta la scuola sembra essere finita in un gorgo spazio temporale. L’intero edificio del collegio, annidato nel centro di Roma con la sua sequenza di suoi cortili in stile rinascimentale, fluttua a mezz’aria nella noia di tutti quelli che in questo momento l’abitano. Dall’ispettore alle educande, che fanno le pulizie nelle stanze dei convittori e che i convittori continuamente insidiano, agli alunni di ogni età e di ogni sezione, a frè Ortensio, a frè Emilio, a frè Serafino e a tutti gli altri frère, fino al portiere e a quelli che preparano il cibo nelle cucine, tutti sembrano travolti da questo nulla. Occorre adesso leggersi in fretta qualcosa della matematica assegnata una settimana fa: più tardi c’è Vignali. Vignali è un incubo. Vecchio, giallo, mezzo morto, pazzoide. A vederlo si direbbe che debba stare in pensione da un pezzo, ma questa scuola ricicla vecchi arnesi che hanno voglia di lavorare, pagandoli due lire. Vignali non è un mediatore velenoso come Ortensio, lui è diretto e violento e anche un po’ fuori di brocca. Insulta, mette due, minaccia bocciature, deride in modo sanguinoso: cretino, sciemo, non sai niente non hai studiade niente, cervellino di formica, stupido, io ti boccio, ti caccio...che fa tuo padre? Fa l’ingenieri? E tu vuoi fare l’ingenieri comm’a tuo padre? Tu? Sciemo, cretino. Fatti aprire un negozietto di bottoni invece. Che ci vieni a fare a scuola? Eccetera. Ha l’aria malata, è magrissimo con la faccia piana di escrescenze. Agita le mani dalle dita lunghe e secche, gialle. Vignali è tragico e terrorizzante, ma è anche irresistibilmente comico, e soprattutto durante le sue invettive la classe ridacchia. Allora Vignali si ferma di botto e guarda diritto davanti a sé, verso il centro dell’aula e lentamente dice: ho individuade un gruppette di teppisti, di delinguende, state attenti che vi caccio, vi boccio, vi strongo, vi sospendo per tutto l’anno a voi quattro, mascalzoni teppiste, farabutti, nullafaciendi. Quando si incazza, cioè molto spesso, gli trema la mandibola, con la quale si mastica in continuazione la dentiera. Se vedi che la mandibola di Vignali comincia a tremare allora significa che la situazione, qualsiasi essa sia, si è fatta seria. Vignali non ci vede e non ci sente. Non puoi dirgli che per quel giorno non hai studiato. Non puoi chiedergli una dilazione un rinvio un perdono una tregua. E le cose devi saperle davvero, perché se ne accorge. Perché dopotutto non è scemo. O studi, oppure Vignali ti rompe il culo. Dunque leggere, ripassare e studiare di nascosto e fare attenzione che Ortensio non è scemo neanche lui ed è alla fine molto più pericoloso di Vignali. Se Ortensio non vuole a te non ti bocciano, ma se gli stai sulle palle per qualche motivo, allora le cose possono mettersi molto male. Ortensio non è una persona. È una procedura, un decorso, una traiettoria, e se le cose si mettono male con lui, può essere molto difficile rimediare. Soprattutto se non-giochi a basket. Chi gioca a basket in prima squadra è protetto dall’alto, cioè dal Direttore e dall’Ispettore e nemmeno frè Ortensio lo può efficacemente colpire. Ma attenzione, devi giocare bene, ti devi allenare seriamente, che l’allenatore parla coi preti e i preti ti castigano. Loro ci tengono alla squadra. Di fatto i tre eleganti il lunedì mattina e all’indomani degli allenamenti non vengono interrogati, vengono lasciati in pace, svaccati sui banchi con le mani dentro i pantaloni che si toccano le palle a crudo per cinque ore filate e si annusano le dita. Gli altri, benché siano finiti qui quasi tutti perché bocciati altrove, come i preti ben sanno, qualcosa – un minimo - devono pur studiare, per dimostrare, almeno formalmente di poter essere promossi a fine anno. Per questi recuperi le famiglie pagano belle cifre. Tutti lì dentro lo sanno, sanno che questa scuola è finta: finto severa, finto religiosa, lo studio è finto, con finti professori, uomini finto-preti, edifici finto antichi. In tutta questa finzione tacita e contrattuale, tra i finti professori ce ne capita pure qualcuno vero, ma raramente. La stessa cosa può accadere con gli studenti: può, almeno in teoria, capitarci pure qualche studente vero, nel senso che è stato mandato qui perché i suoi chissà che si credevano che fosse questa scuola. Perché fa fine, dà prestigio. Perché, se si possono mandare i figli al collegio Taldeitali. vuol dire che i soldi bene o male si sono fatti. E nel generone si deve sapere che i soldi si sono fatti, per ottenerne approvazione e magari accesso ai circoli sul Tevere. Alla terza ora c’è Vignali e tutti fingono di ascoltare la lezione di Ortensio su Tertulliano e chissà chi altro, ma sbirciano di soppiatto nel libro di matematica, si passano qualche foglietto, bisbigliano preoccupati. Vignali è vecchio e non guarda in faccia a nessuno. Solo per i cestisti sembra avere un occhio di riguardo. Si fa per dire, di riguardo, che si vede e si capisce benissimo che Vignali a quei tre li boccerebbe volentieri. Ma forse anche lui deve acconsentire a questa prassi di far sapere per vie indirette agli alunni-atleti quando saranno interrogati e su cosa. Insomma questo si vocifera e dopotutto solo si suppone, non si sa con certezza. Nulla si sa con certezza tranne le regole generali del gioco che vigono in questo collegio Taldeitali. Tutto sommato Tertulliano e Ortensio adesso fanno comodo, prima dell’ora di terrore puro di Vignali. Ortensio va in automatico e dice cose che nemmeno lui ascolta, leggiucchia dal manuale, recita brevi passi in latino di questo o di quello, trascina lentamente la finta lezione verso la fine dell’ora. Ortensio sa che nessuno lo ascolta, ma oggi è in buona e non ha voglia di mettersi a fare questioni di state zitti e state attenti e dimmi cosa sto dicendo e di cosa stiamo parlando. In altre occasioni magari quando sta di traverso s’incazza e soavemente, com’è nel suo stile, si accanisce, ti leva la pelle: interroga a salti e fioccano i due e gli impreparato. Ma oggi va in un altro modo. Oggi, e a quest’ora, vige una tranquillità pattizia, una tregua tacitamente concordata. L’intera classe fluttua pigramente in questa mattinata d’inverno verso l’approdo delle 11,30 mentre l’odore disgustoso di covaticcio giovanile, di lana bagnata, misto all’alito di cappuccino con bouquet di fumo fumato, la fa ormai da padrone. Tutto è esitazione, ottundimento incertezza, stasi, pigrizia inebetita che celano, come una coperta calda e puzzolente, la violenza disperata delle vampate di eccitazione sessuale che sfiammano sotto le giacche, nei pantaloni stirati e nelle teste confuse degli interni e degli esterni. Frasi di una volgarità lercia sibilano tra i banchi, tra queste teste volte tutte in una sola direzione, tra questi corpi costretti nei loro banchi singoli a stare seduti per ore nell’aria viziata, consumata, bruciata. Alla fine dell’ora si spalancano tutte e tre le finestre. La classe si alza, si sgranchisce, si va al cesso a pisciare e a fumare. Qualcuno resta addirittura seduto a ripassare matematica. C’è tensione. La giornata non ha ancora svoltato. Affacciato a una delle finestre Lenci guarda assorto il giardino del collegio. Lenci è anomalo perché, con ogni evidenza è molto più anziano degli altri che, tra una bocciatura e l’altra, sono arrivati tutti più o meno sui diciotto. Lui ha l’aria vissuta di un quarantenne, un po’ di rughe attorno agli occhi, una barba dura che sempre gli lascia in faccia un’ombra nerastra. Sopracciglia folte, lo sguardo tranquillo. È figlio di uno ricco che fa strade e marciapiedi e va in giro con una Giulietta spider nera. Ci viene pure a scuola la mattina. Nessuno degli altri ha una macchina così, per ora, ma presto molti l’avranno, alcuni come premio per la promozione. Nessuno sa quanti anni abbia effettivamente Lenci, ma di sicuro ha sempre l’aria di avere altro da fare fuori di lì, di avere donne. Ha l’aria di uno che scopa tranquillamente, senza vantarsene, di un uomo fatto capitato per caso in un parterre di segaioli all’ultimo stadio, cioè poco prima di diventare ciechi. Petretti il pazzo, che sta seduto al primo banco, dove Ortensio l’ha recentemente spostato per tenerlo sott’occhio, si è alzato in piedi con una matita in mano. È uno che non riesce a stare fermo, che agisce d’impulso praticamente in ogni occasione, senza riflettere. Ride e si diverte con sé stesso, si direbbe. Ma come profitto non va poi così male, perché, benché sia strano, non è stupido e quel poco che studia lo capisce e lo ricorda. Mostra la matita al resto della classe e, con le spalle rivolte alla porta, fa cenno di volerla ficcare nel culo di Lenci che sta poggiato curvo al davanzale, ignaro. Qualcuno ride. Petretti si avvia lentamente verso la finestra puntando la matita dritta tra le chiappe di Lenci e non si accorge che sul vano della porta, ritto e silenzioso e pallido come un Nosferatu andato a male, è comparso Vignali. Sta per entrare e tutta la classe l’ha visto e ammutolisce e cerca in tutti i modi di avvertire Petretti, che invece prosegue nella sua manovra, ignaro. Vignali sembra guardare senza capire, ma quello che vede pare che non gli piaccia per niente. Si ferma sulla porta e osserva Petretti che, dandogli le spalle e ridacchiando all’indirizzo della classe agghiacciata, sta portando a termine la sua missione. Lenci sentendosi la punta della matita pungergli il culo, si volta di scatto e dice porcoddio. Petretti ride e mentre ride vede Vignali fermo lì sulla soglia, con la mandibola tremante, giallo come un limone, lo sguardo allucinato. Sendi tu, gli esce detto in una specie di rantolo, io ti strongho, ti boccio, ti sospende per tutta la vita, ti massacro, ti anniendo...vi caccio a tutti e due, scemi, maleducati...agita le mani in una strana pausa. Sembra che non gli vengano su le parole. Rimane per qualche istante lì, fermo nel vano della porta come fosse una bara in verticale, il suo volto è bianco quasi trasparente, poi cade giù schiantandosi contro lo stipite. Genovese guarda tutta la scena da lontano, cioè dall’ultimo banco dove lo mettono sempre, da quando va a scuola. Si alza in piedi di scatto come gli altri. Quelli nei primi banchi si sono già precipitati verso Vignali che è a terra ed è morto. Oggi è un giorno speciale eccezionale straordinario. Pareva cominciato al solito modo. E invece no. Invece oggi è morto Vignali. Questo sì che è un fatto e una notizia. Gli esterni vanno a casa prima. Meno male, dice più tardi Genovese in cortile, ieri non avevo fatto un cazzo, non sapevo niente, quello stronzo mi doveva interrogare. 06.03

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