lunedì 12 settembre 2005

Un appunto sulla Camera picta

C’è un’arte antica (ma succede anche ad autori recenti) che si allontana da noi, dal gusto e dalla sensibilità cui apparteniamo – siamo noi ad essere abitati, e come parassitati, dal gusto dominante, che non è nostro ma noi siamo suoi – e c’è un’arte che invece si avvicina e ci raggiunge, quasi ci avesse inseguito e superato e atteso, come per sorprenderci, a questa o quella svolta del divenire, che è svolta anche perché quest’arte e quell’artista (quegli artisti) ci si svelano di nuovo, inattesi e sorprendenti. La vicinanza di Andrea Mantegna ti investe quasi con violenza quando, dopo un lungo cammino attraverso le sale del Palazzo Ducale di Mantova, raggiungi la Camera degli Sposi, dei cui affreschi è bene ricordare la data: 1465-74. Ora io immagino che se vuoi sapere cosa fosse la Mantova dei Gonzaga nel cosiddetto Rinascimento, questi affreschi te lo dicano con una certa precisione. Ma soprattutto Mantegna qui sembra appartenere, senza nessuna mediazione culturale, al gusto cui pure noi apparteniamo, piacendoci direttamente e del tutto. Piacendoci forse troppo. Cioè, a tal punto, che ci innesca un quid di commozione/eccitazione quasi sospetto, che salta ogni tentativo di organizzare mentalmente quello che vediamo e ci inumidisce invece gli occhi. Non mi piace nessun tipo di fruizione emozionale. Dunque sono a disagio lì dentro: estasiato e nello stesso tempo sovra-stimolato, eccitato, ansioso, incredulo. Eccolo lì il panneggio affilato e crudetto di cui parla così acutamente Vasari, le figure che si stagliano ben contornate, plastiche e allo stesso tempo piatte, nonostante la tecnica del modellato sia assolutamente sublime, realistica e contemporaneamente arcaica, medievale. L’opera è un contenitore sterminato di molteplicità di senso e di contraddizioni, perché dire che Mantegna è medievale, voglio dire questo Mantegna, è sicuramente una cazzata fattuale, ma è anche (per me) una verità percettiva indotta e sollecitata anche (soprattutto?) da quegli aggettivi vasariani, affilato & crudetto, letti casualmente qualche ora fa sull’inserto culturale di un quotidiano. Resto affascinato soprattutto dalla palma che si staglia contro il cielo (e il paesaggio) della scena chiamata L’incontro e da quelle improvvise astensioni dal colore, quando resta solo il contorno e forse un po’ di chiaroscuro a determinare la gamba di un paggio, o un altro particolare nemmeno troppo secondario. Mi prende poi tutto quel blu (di lapislazzulo?), e celeste e magenta, che con l’uso anch’esso frequente, e non banale, del rosso e di un bel verde vescica, conferiscono al tutto una specie di immersione atmosferica, assieme a una letizia laica di stare al mondo e di goderselo. Il disagio di questa bellezza così vicina e incalzante, quasi sospetta, che non ti chiede alcuno sforzo, ti mette voglia di andar via di lì, di uscire all’aria e girare per la città confuso, di sederti normalmente al caffè, chiedere una fetta di torta, passare ad altro, insomma disimpegnarti.

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