domenica 7 febbraio 2010

Compro uva peruviana rosata, chicchi duri e grossi come susine, semi delle dimensioni dello scroto di un toporagno. Mi piace, la finisco in un paio di giorni, mentre A. ne diffida, la disdegna. Vado al mercato, cerco una spigola per sei persone. La pescheria le ha terminate. Telefono al mio amico Andrea, lui dice di fare il suo nome. Faccio il suo nome. Da sotto il banco cominciano a uscire grosse meravigliose pizzogne, gli occhioni lenticolari limpidissimi – sembrano usciti freschi di molatura dalle officine Karl Zeiss – spalancati sul mondo della non-acqua. Ne compro due. Le facciamo al forno with potatoes. Squisite.
Dal frutti-vendolo si cominciano a vedere i carciofi rossi et grossi, varietà Paestum. Costano 1,70 l’uno, ma sono teneri, pastosi. Mi sorprende che esista un carciofo che si chiama Paestum. Come puri oggetti fisici i Paestum sono magnifici, tondeggianti, paccuti, compatti. Dopo i fatti di Rosarno, ma lo sapevo anche prima solo che non ci pensavo, ogni volta che vedo questa verdura e questa frutta, così belle e perfette, persino troppo, cresciute indenni da ogni attacco animale o vegetale che ne potesse segnare l’integrità, deformare la crescita, tutte le volte mi immagino il lavoro, iniziale e probabilmente dis-umano di raccoglierli, e penso alla catena di guadagni che le fa arrivare fino a noi al prezzo di un’ora di lavoro di chi li raccoglie. Oggi vado allo scrauso mercatino di Piazza Mazzini e compro una tovaglia quadrata 150x150 cm, di lino con motivi, a venti euri, giallastra, molto lontana da come concepisco una bella tovaglia, ma anche lontana da come concepisco una brutta tovaglia. Spesso, anzi spessissimo, comprando qualcosa, sono costretto al compromesso della medietà. Essere ricchi forse significa proprio questo: non dover mediare, sempre, tra quello che desideri e quello che hai in tasca. Se penso – ci penso spesso – alle foto degli interni, ma anche degli esterni, della casa di Berlusconi in Sardegna, (chiamata, con una bella dose di post-ironia, La certosa), mi rendo conto che anche nella ricchezza più sfrenata si può sguazzare nella mediocrità degli oggetti. Leggo su Internazionale un estratto dal reportage a fumetti sulle ripetute stragi di palestinesi a Gaza. Si intitola Footnotes in Gaza, è di Joe Sacco, uscirà in Italia da Mondadori. Vorrei occuparmi d’altro ma mi è difficile sottrarmi alla rabbia che mi monta ogni volta che penso alla conquista territoriale che Israele porta avanti da sessant’anni, facendo allo stesso tempo finta di voler «fare la pace» con quelle stesse popolazioni che sta espellendo e massacrando. Mi monta la rabbia verso il Presidente del Consiglio del mio paese (rappresenta anche me), che se ne va in Israele, tutto imbellettato come al solito, e afferma che il bombardamento di Gaza di un anno fa (più di 1.500 morti) è stato cosa giusta, poi va in Palestina e afferma oscenamente che i morti di Gaza sono come le vittime della Shoà e nessuno, né in Palestina e neppure in Israele gli dà uno schiaffo, facendogli volare per aria il parrucchino che tiene incollato sul cranio con la colla di pesce. Come se non bastasse, abituato in patria a dire una cosa per contraddirla il giorno dopo – come accade a tutti i tappetari, per lui le parole non contano, non impegnano, non segnano – fa un discorso contro l’Iran in momento in cui persino gli Stati Uniti hanno ammorbidito i toni e cercano una via d’uscita diversa dalla contrapposizione.

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