Più che di non-luoghi parlerei di luoghi deboli, oppure meglio, di luoghi ipo-identitari, dotati di quella impagabile caratteristica che è l’anonimità.
Lì io sto bene.
Sto bene negli aeroporti, in primis.
Sugli aerei e sui treni, se non fossero così scomodi.
Mi sento a mio agio nei super-mercati, nelle stanze e nelle hall degli alberghi, quando sono grandi, nelle stazioni della metro e nei vagoni, quando sono semi-vuoti.
Sto bene nei grandi centri commerciali, non ho niente contro i grandi centri commerciali, non li considero qualcosa di abnorme e di mostruoso per il solo fatto che lì, il «contatto umano» tra chi compra e chi vende è azzerato.
Anzi mi piacciono proprio a causa di questo azzeramento.
Mi piacciono tutti i luoghi ove si convive per poco e molto tempo senza la necessità di dirsi cose, di parlarsi, di stabilire «contatti».
Cioè mi piacciono i luoghi dell’anonimato e dell’alienazione, della non-comunicazione.
E poi i bar delle stazioni e degli aeroporti, gli auto-grill sulle autostrade, le sale d’aspetto delle stazioni.
Sto bene nelle tavole calde, dentro i McDonald’s, se non fosse per il lezzo di grasso di carne cotto, il dolciastro delle patatine.
Sto bene in certe vecchie pizzerie nazional-popolari, quelle che nel menù hanno sì e no dieci piatti, quelle coi camerieri che non hanno tempo da perdere.
Sto bene ovunque non ci sia «contatto umano», sempre che alla fine si venga a sapere di cosa si parla quando si disce «contatto umano».
Ci si lamenta che nei palazzi tra vicini di casa al massimo è un buongiorno buonasera.
Che si dovrebbe fare, invece? Diventare amiconi di qualcuno solo perché è tuo vicino di casa?
Sono vent’anni che non riesco a dare del tu al mio vicino.
Una volta ci diamo del tu e una volta del lei.
Quando lo incontro sul pianerottolo, mentre aspettiamo l’ascensore assieme, sono sempre in imbarazzo.
Che dovrei dirgli? Che dovrebbe dire lui a me?
Oggi siamo saliti assieme in ascensore, lui aveva il cane.
Meno male, perché così abbiamo parlato del cane.
Qui sotto, nella desolazione del marciapiede, delle cartacce e delle cacche, dopo un paio di negozioni di mobili, sempre vuoti, apre i suoi battenti un baretto dis-accogliente dove un certo numero di persone, sempre le stesse, maschi e femmine, hanno un contatto reciprocamente «umano».
Li ascolto quando prendo il caffè la mattina. Cosa si dicono? Niente.
Niente che valga la pena di essere detto, ascoltato: fanno vibrare l’aria.
Per esempio c’è un uomo d’età, con barba e capelli lunghi, bianchissimi, la faccia pietrosa piena di rughe, vestito stile american byker.
Siede al tavolo fuori, anche col freddino, perché fuma molto, si vede dai baffi gialli di nicotina.
Lo chiamano Barabba e gli dicono cose del tipo «A Bara’, ripijate che ieri v’avemo fatto piagne».
Alludono a incontri calcistici, perché solo di questo argomento si parla, mentre le casse di un impiantino mandano un pezzo de Vasco.
Barabba farfuglia risposte che le senti come costrette dentro un’arguzia tifosa tutta di maniera.
La sensazione è che in tutto questo «contatto umano» non solo a nessuno frega niente di nessuno, ma a nessuno frega niente del calcio.
Il calcio è solo una sponda mentale, senza la quale non saprebbero cosa dirsi.
Si radunano nel baretto perché si sentono soli, immagino, è un pretesto per non stare a casa.
Ma il dirsi continuamente cose del tutto insulse, completamente neutre, li farà sentire davvero in compagnia?
Mentre io vorrei dire alla barista: «Come ha fatto lei, che fino a sei mesi fa era molto, ma molto cicciona, a dimagrire così?»
Finirò per unirmi a loro, in fondo anche il baretto è ipo-identitario.
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