venerdì 12 marzo 2010

Il Pacifico

Se hai un mappamondo e metti l’occhio all’altezza dell’equatore e lo fai ruotare su sé stesso, vedrai che c’è un istante in cui vedi praticamente solo acqua. Guardavo questo mappamondo e vedevo tutto quell’azzurro punteggiato di isole minuscole, uno sciame di particelle di terra, un pulviscolo perso in un Oceano grande come un intero emisfero. Quello era il Pacifico, naturalmente. Erano i Mari del Sud. All’inizio di una passione c’è sempre un’immagine, visiva o mentale, che per qualche motivo si incide nella memoria e marca di sé tutto quello che viene dopo. La mia immagine mentale del Pacifico deriva da una lettura precoce di alcuni racconti di Stevenson pubblicati nella BUR, quella antica formato piccolissimo stampata a caratteri minuscoli. Fu a quel tempo che si manifestarono i primi sintomi di un male cronico di cui soffro ancora oggi. Lawrence Durrell lo chiama “isolomania”, (preferisco “nisofilia”, da nisos, isola) cioè passione per le isole, per l’idea di isola. Il nisofilo è alla ricerca di un’isola da considerare perfetta, cioè un posto dove per lui sia possibile trovare un accordo ragionevole con ciò che lo circonda. Ero un adolescente, credo, ma vedevo i miei rapporti col mondo, con la mia famiglia, con la scuola e i miei genitori e tutto il resto come già irrimediabilmente compromessi. Mi sembrava, esattamente come mi sembra adesso, che la mia vita avesse imboccato la strada sbagliata e che da qualche parte esisteva quella giusta e bisognava trovarla. Cominciai a convincermi, Stevenson ne è il maggior responsabile, che se me ne fossi andato su un’isola dei mari del Sud, da solo, avrei potuto re-impostare tutto, ricominciare una vita partita male. Quindi aderii in pieno al mito del Pacifico, che da un paio di secoli consiste in questo: credere nell’esistenza di un luogo lontano e fuori mano, ove condizioni di vita, clima, valori e costumi, siano l’opposto di quelli in cui viviamo noi, dunque migliori. Un po’ di tempo fa osservavo l’orbe terraqueo nella sala delle carte geografiche di Palazzo Farnese a Caprarola. Sono affreschi eseguiti attorno al 1570, se non sbaglio. Praticamente lì già c’è tutto quello che ci deve essere, tranne qualche dettaglio, qualche errore e un continente mancante: l’Australia. Il resto, sia pure deformato e sproporzionato, c’è: il mondo era noto. C’è persino il Cipango (Giappone), è indicato persino lo stretto di Bering. Ma mancava ancora la nozione di cos’è il Pacifico, vale a dire di quanto è realmente grande, cosa che si sarebbe capita solo dopo i tre viaggi di Cook. L’impresa di Magellano risaliva a meno di settant’anni prima ed era stato seguita da altre esplorazioni, ma nella sostanza, a parte alcuni dati essenziali, di quell’Oceano si sapeva poco. Solo alla fine del Settecento si potrà dire di averne un’idea abbastanza precisa. Nei successivi cento anni le navi delle grandi potenze marittime lo percorreranno in lungo e in largo, a vela, e se ne scriverà molto. La grande narrazione del Pacifico, soprattutto inglese e americana, ma anche francese, è racchiusa più o meno nell’arco di un secolo, con significativi antecedenti nel Settecento e qualche sconfinamento nel Novecento, quando l’immagine che se ne restituisce si fa sempre più manierosa e scontata. Se il mondo moderno ha mai avuto quello che si chiama un “altrove”, quello è il Pacifico. Per altrove si intende un universo esterno e opposto a quello in cui viviamo, dove le usanze e leggi e le condizioni e le costrizioni che ci opprimono sono abolite, dove regna la libertà dal bisogno, eccetera. E questo appunto diceva, e parzialmente ancora dice, il mito del Pacifico: è la storia complicata del mito del buon selvaggio e del Paradiso Terrestre. Il lebbroso delle Hawaii, che fugge sulle montagne ribellandosi al suo destino nell’isola lazzaretto di Molokai, dove oggi si fa il surf. I marinai derelitti che vivono sulla spiaggia di Falesà. La nave che trasporta casse e casse di champagne e l’equipaggio che pian piano se lo beve tutto. L’altra nave con l’incendio nella stiva che dura da settimane e cerca un’isola dove mettersi in salvo e fa appena in tempo a dar fondo in un atollo, che esplode. Ismael e la sua notte australe in coffa sul Pequod. Starbuck, Stubb e Flask, i tre ufficiali del Pequod. Queequeg, Tashtego e Daggoo, i tre ramponieri del Pequod. Le isole Marquesas-Marchesi di Melville, di Stevenson, di Moitessier, di Gauguin, di Brel, eccetera. Quei due che fuggono dalla baleniera e vivono mesi a Taipi, villaggio di antropofagi: è la storia di Melville che diserta dalla sua nave alla fonda alle Marchesi e si rifugia nella foresta, raccontata da lui stesso in Taipi. L’altra fuga famosa di quei marinai ribelli del Bounty che scelsero le montagne di Tahiti, invece di fuggire per mare con gli altri, e furono catturati e morirono nel naufragio della nave che li riportava in patria in ceppi. E quelli che invece si rifugiarono all’isola di Pitcairn, praticamente uno scoglio, e ancora oggi i loro discendenti, una cinquantina, ne portano i nomi: Christian, Adams, eccetera. Il capitano Bligh che con 18 uomini, mi pare, viene abbandonato in pieno oceano su una sola lancia e riesce a fare cinquemila miglia di mare perdendo un solo uomo e poi, anni dopo, diventa governatore del Nuovo Galles del Sud, cioè dell’Australia e della sua prima colonia, Botany Bay, cioè Sidney. Quando, dopo non so quanti mesi di navigazione, senza acqua né cibo, Bligh giunse all’isola di Timor, molti dei suoi compagni ai quali aveva ordinato di non morire, si rilassarono e si concessero una buona morte di stenti in un letto. L’uomo che con calma allunga il braccio e toglie a mani nude la scolopendra impigliata nei capelli dell’amata, morendo poco dopo per il suo morso. Il selvaggio che salva l’amico dall’attacco dello squalo gettandoglisi contro a braccia tese e riemergendo con due moncherini sanguinanti al posto delle mani. L’uomo che vede sulla fronte dell’amata e prossima sposa il rossore inequivocabile della lebbra incipiente. Il capodoglio che affonda la Baleniera Essex e gli ottanta giorni che i sopravvissuti dovettero passare nell’oceano prima di essere salvati, nella vicenda realmente accaduta cui si ispirò Melville per il Moby. Lo scozzese che visse quattro anni sull’isola Juan Fernandez dove fu abbandonato da una nave e dalla cui vicenda trasse ispirazione De Foe per il suo Robinson. E oggi l’isola si chiama Robinson, perché l’immaginario, quando è condiviso, finisce per prevalere sulla realtà, sempre. L’isola (Guam?) dove Stevenson ambienta un romanzo magistrale, Il relitto, e dove meno più o meno cinquanta anni dopo si svolge una delle battaglie più terribili di tutta la guerra nel Pacifico. L’atollo di Bikini e la bomba. Mururoa e la bomba. Le isole Aleutine dove prestò servizio militare Dashiell Hammett durante la seconda guerra. I calamari giganti della corrente di Humboldt, il mito del kraken, il mostro di Melville. Moby Dick. La crociera dello Snarck, lo yacht di Jack London, durata quasi un anno, mi pare. Joshua Slocum e il suo Spray. Bernard Moitessier e il suo Jushua. L’arcipelago delle Encantadas di cui scrive Melville, che oggi si chiama delle Galapagos. Charles Darwin che vi giunge a bordo della Beagle, sotto il comando del mitico capitano Fitz Roy, e osserva e deduce. Darwin che capisce per primo come si formano gli atolli. Il suo omologo James Cook e i suoi tre viaggi, capolavoro di intelligenza, di pragmatismo e arte marinara. Darwin e Cook come summa delle virtù anglosassoni. La morte di Cook, ucciso a colpi di mazza su una spiaggia delle Hawaii, sulle cui cause resta il mistero, presente Kameamea, che diverrà in seguito un grande re, il primo capace di costruire l’unificazione politica delle Hawaii. Il rilievo cartografico della Nuova Zelanda, praticamente perfetto, eseguito dai cartografi imbarcati con Cook. Il severo Cook che si prende come amante la regina di Tahiti, oppure lei che si prende lui. Le Isole della Società, che appaiono il paradiso in terra, l’utopia che si realizza, la conferma delle teorie di Rousseau e scatenano il dibattito tra gli intellettuali del tempo. Cook che capisce una quantità di cose e raccoglie una quantità di dati, che quasi gli consentono di completare il quadro geografico del globo. Prima di lui battevano questi mari: Dampier, Bougainville, Torres, e davvero molti altri. Mesi e mesi, anni, di navigazione senza sapere quando si sarebbe toccato terra e dove. Scorbuto, ammutinamenti, naufragi, scontri con gli indigeni: Magellano che muore ucciso da un colpo di lancia nelle isole Filippine. Fletcher Christian il nevrotico, innamorato, pare, del suo comandante, che guida l’ammutinamento del Bounty nel 1789, anno della Rivoluzione. La baleniera americana che approdò a Pitcairn molti anni dopo l’ammutinamento e per caso scoprì l’ultimo sopravvissuto, il marinaio Adams. Dana e il suo Due anni a prora e la sua tomba qui a Roma, al Cimitero degli Inglesi. Stevenson che va a vivere a Samoa e ci muore di tisi. L’attacco corsaro di Francis Drake al galeone spagnolo proveniente da Manila, la sua cattura al largo di Acapulco e il fatto che Elisabetta I fu in grado, con il solo bottino di quella nave, di risanare il bilancio dello Stato. La difficoltà di scoprire le rotte oceaniche in direzione ovest - est. E, lungo la costa del Sud America, quella in direzione nord - sud, alla fine individuata da un timoniere di nome Juan Fernandez che, allargandosi verso ovest in cerca di vento, coprì l'arcipelago che porta il suo nome. L’impossibilità dei marinai a calcolare la longitudine prima del doppio cronometro di Harrison. Il ciclone che ricorre, come evento purificatore, in film e racconti e romanzi, dove la complessità dell’intreccio umano di desideri passioni violenze interessi viene azzerato di colpo dalla tempesta e tutto viene riportato all’innocenza delle origini. I pesci, su tutto. I popoli polinesiani e quelli della Melanesia e della Micronesia e il fatto che non riesco mai a ricordare che differenza c’è tra i tre termini. La lingua kanaka, comune a tutti gli abitanti del Pacifico, ai Maori della Nuova Zelanda come agli hawaiani che vivono isolati nell’Oceano a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Il bèche de mer il linguaggio indigeno composto di parole inglesi e francesi e spagnole e kanaka, praticamente comico, di cui narra London. La zattera di balsa Kon-tiki, con la quale l’antropologo Thor Eyerdhal cercò di dimostrare, contro ogni evidenza, la provenienza dei polinesiani da est, cioè dal Sud America invece che dall’Asia: e quando piantano il coltello in un tronco e ne ritraggono la lama bagnata. Eccetera. Realtà e narrazione si confondono. I nomi che ho riportato possono essere inesatti come ortografia.

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