lunedì 8 marzo 2010

Si diceva ieri sera di persone nel rapporto tra loro e le loro cose, le loro opere, del rapporto tra il fare e il dire e il dirsi reciproco, si diceva delle alleanze e degli amori, dei rosicamenti degli odii delle lesioni interne, raramente esterne, che ci provoca l’inferno relazionale in cui ciascuno di noi deve vivere («l’enfer sont les autres» e ciascuno di noi è inferno per gli altri), muoversi, agire, se vuole essere considerato esistente, se vuole dirsi vivo tra i vivi, in alternativa all’andare a pesca, per dire: un inferno per ogni disciplina che comporti l’esposizione e l’implementazione dell’ego, sciagurato protagonista vero di ogni cosa, in ogni tempo e luogo: dappertutto uno zuppone denso di relazioni, attraversato dai moti convettivi incessanti di quelli che salgono e che scendono, da cordate di che arrancano verso l’alto, sempre provvisorie, sempre pronte a sciogliersi e riformarsi in altro modo, con altri «amici», altri sodali temporanei, altri alleati: in fondo al recipiente chiuso di ciascun universo disciplinare il sedimento dei soccombenti, di quelli che hanno mollato, che si sono appartati, che hanno perso, che sono stati schiacciati: di quelli che le circostanze li hanno fottuti, di quelli che si leccano le ferite in attesa di ripartire con altre cordate: si diceva dell’esistenza, nei tanti inferni del fare umano, di amori e passioni carnali, di affetti (fragili, pronti a rompersi al primo urto) sovente verticali maestro-allievo, più raramente orizzontali, nel senso di amicali e sicuramente provvisori: si diceva di parabole in corso e di parabole concluse, di poteri esercitati senza risparmio, ormai quasi estinti, che lasciano una scia di risentimenti nei dominati, un vitalizio di veleno, un tot inestinguibile di ri-sentimento: pensavo che ogni insegnamento implica una certa dose di violenza sui discepoli che, pur nell’eventuale gratitudine e affetto per il maestro, prima o poi se ne vendicheranno: si diceva di ammirazioni segrete, di ego debordanti, di sudditanze, di violenze silenziose, inferte/subite: tutto questo tra uomini/donne dediti allo studio e all’arte dello scrivere parole: parrebbero universi chiusi, come quelle agghiaccianti bocce di vetro sigillato in vendita nei negozi per fanciulli, con dentro acqua e feroci micro-gamberetti capaci di restare vivi senza alcun contatto con l’esterno, in un inferno auto-sufficiente di massacri, di cicli riproduttivi e lotte per l’accoppiamento, una generazione dopo l’altra: eppure quello che conta, al postutto, sono le opere: è come se dai pacchetti di mischia che si formano continuamente, schizzassero fuori all’improvviso opere come palloni giocabili, capaci di ridare impulso e movimento a situazioni di stallo, capaci di spostare il gioco più in là, fino a quando si ferma di nuovo con un’altra prova di forza statica, da cui prima o poi usciranno nuovi palloni giocabili e così via.

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