mercoledì 10 marzo 2010

Sono un attrezzista, nel senso che mi piacciono gli attrezzi, nel senso che tendo a comprarne al di là delle mia reali esigenze, nel senso che per ogni occorrenza mi piace usare l’attrezzo «giusto», cioè costruito e pensato per quella cosa lì, per quel determinato lavoro. Il mondo degli attrezzi è complesso, concettualmente molto sofisticato, coinvolge in continuazione non solo le nozioni di utilitas e di firmitas, ma anche quella di venustas: anche qui, come ovunque, torna insistentemente Vitruvio: funzionalità, solidità, bellezza. Per quanto mi riguarda e per quanto riguarda gli attrezzi, la nozione di bellezza comprende necessariamente le altre due: una bolla di sapone, che è completamente inutile, può legittimamente collocarsi al limite dell’esistente, ma un martello no: la sua bellezza sarà sempre connessa con un equilibrio tra robustezza ed efficienza applicativa. Non è poi tanto facile trovare un bel paio di forbici. La Forbice, assieme al Caccia-Vite, per me sono una specie di ossessione: ne comprerei in continuazione. Ma è lo stesso con gli strumenti di misurazione, perché, oltre che un attrezzista, sono un misuratore. Godo ad osservare-maneggiare-usare qualsiasi strumento di misura che mi sia intelligibile, dalla flessibile et geniale fettuccia del sarto, al goniometro, al teodolite, al sestante, eccetera. Trovo irresistibili, per esempio, i calibri, ne comprerei in continuazione: esistono nella precisione e per la precisione, sono la precisione. Ogni strumento di misura è tanto più preciso quanto più è stato costruito con precisione, dunque per ottenere precisione a valle, cioè nella misurazione, occorre molta precisione a monte, vale a dire nella costruzione degli strumenti. Naturalmente è il concetto di precisione, a me molto caro, ad essere complessivamente inafferrabile. Invece di precisione forse sarebbe meglio usare il termine esattezza, ma non sono sicuro che siano sinonimi. Il Devoto-Oli ne dà questa misteriosa definizione: «inappuntabile coincidenza con la forma o la sostanza dovuta», mentre il De Mauro si limita a ribadire che esattezza significa «l’essere esatto, senza errori» e alla voce esatto dà questa definizione: «senza errori, preciso». Esatto è ciò che è preciso. Preciso è ciò che è esatto. Esatto è il participio passato del verbo esigere, che vuol dire sia pretendere, che riscuotere. Questa circolarità concettuale è dovuta alla reale difficoltà ontologica che si annida nel concetto di esattezza. Per essere esatta, una misurazione (altro concetto difficilissimo/bellissimo) dovrebbe coincidere in tutto e per tutto con la realtà fisica assoluta di un, mettiamo, oggetto, che sarebbe come dire che la materia è determinata e determinabile, che gli oggetti posseggono confini certi, eccetera: ma non è così. E non è così nemmeno per i numeri, che spesso tradiscono la stessa indeterminazione della materia: basta dividere il numero 2 per il numero 3 per rendersene subito conto (0,66666666666666666666666666666667…): se ho una cosa larga due metri e voglio dividerla in tre parti, la misura che dovrò scrivere sarà commisurata all’esattezza degli strumenti di misurazione e di taglio, cioè dovrò scegliere il numero di decimali percepibili dopo la virgola. Se la misura la deve leggere un muratore meglio attenersi ai centimetri (66 e rotti: a occhio braccio e culo). Se è un fabbro gli serviranno i millimetri (666) talvolta anche i decimi. Se è un tornitore i decimi di millimetro avranno sempre senso (6666), talvolta i centesimi. Se è un tecnico di strumenti di precisione probabilmente gli occorreranno altri decimali. E così via: quanto più sofisticata è la tecnologia, tante più sono le cifre decimali che occorrono per soddisfare la domanda di precisione, di esattezza. Eccetera, fino alla vertigine che travolge una mente non-matematica come la mia. Divagazioni a parte, per quanto riguarda propriamente il concetto di attrezzo, anche qui si apre una gamma di considerazioni/classificazioni. Esistono attrezzi basici, o di ordine primario, con i quali possiamo agire direttamente sul materiale naturale, come un’ascia, una mazza, una sega, un coltello, un punteruolo, uno scalpello, una vanga, una zappa, un maleppeggio, un trapano a mano, una falce, un rastrello, un forcone, un badile, un gancio, eccetera: vale a dire gli attrezzi che ti servono su un’isola deserta. E poi esistono attrezzi che hanno senso e possibilità d’uso solo all’interno di una determinata tecnologia. Si pensi alla chiave inglese: non avendo mai visto un bullone è difficile capire a cosa possa servire. Poi c’è il caccia-vite, che prende senso dalla vite e contemporaneamente le conferisce senso. Lo stesso vale per tutti i tipi di chiave, come per esempio la chiave a brucola. Che senso ha una rivettatrice senza rivetti? Un trapano senza punte? Una punta senza trapano? Un chiodo senza martello? (...veramente il chiodo e il martello sarebbero attrezzi border-line, si situerebbero lungo il confine che separa gli attrezzi che chiamo di ordine primario da quelli di ordine secondario…) Eccetera. L’elenco degli attrezzi di ordine secondario, coi quali si agisce in un ambiente già specificamente tecnologizzato, è infinito e con infiniti gradi di specializzazione/sofisticazione. E comunque sembra proprio che più «avanzata» è una tecnologia, più c’è bisogno di precisione e accuratezza: è come se in ogni avanzamento risulti decisivo ciò che prima era trascurabile. Esiste un intero sterminato universo che si situa al di sotto delle nostre normali capacità di percezione, esattamente come ne esiste uno (molti?), sterminato, al di sopra. Per ambedue occorrono strumenti di penetrazione e soprattutto di misurazione, essendo la scienza, com’è ovvio, essenzialmente misura. Mi piace che le cose siano misurabili, mi piace prendere le misure di una stanza, di un edificio, di un oggetto e mi piace basarmi su quelle misure per prendere decisioni ulteriori, per pianificare interventi, comprare mobili, dispositivi, attrezzature. Mi piace sapere che gli oggetti e gli ambienti presso/nei quali viviamo hanno dimensioni commisurate a quelle standard della specie umana. Mi piace sapere che una porta normale è 80x210cm, che una sedia è alta più o meno 40cm e un tavolo è bene che stia a quota 78cm, mi piace sapere che due persone affiancate vogliono 120cm per passare comode senza toccarsi, mi piace sapere che un letto singolo è 80x195, eccetera. Mi piace sapere che una scala comoda si disegna seguendo una formula empirica che determina l’altezza del gradino in relazione alla sua larghezza e viceversa. Mi piace che la materia sia complessivamente più stabile della cultura e della storia umane e che ci si possa mettere d’accordo, al di là delle contingenze culturali, politiche, storiche, sulle unità di misura da usare per quantificarla, sia come ente tri-dimensionale, che come ente massivo, dotato di peso et densità. Mi fermo qui, ma mi potevo fermare pure prima.

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