giovedì 1 aprile 2010

Ho giocato lungamente a scacchi nei cortili delle carceri di Samarcanda*

Sì, invidio i giocatori di scacchi per il solo fatto che riescono a giocare senza essere travolti dall’ansia, per il loro riuscire ad essere a loro agio nel gioco, anche se dubito che si tratti veramente di un gioco. Se giochi a scacchi resti sempre mentalmente nel gioco, una parte del tuo cervello non smette mai di giocare, seguita a farlo in ogni momento, non una particolare partita, ma una sequenza di situazioni scacchistiche. Al giocatore resta nella testa un costante sapore scacchistico del pensare, una modalità dell’escogitare e prevedere attacchi et difese in ogni evento relazionale, come se il gioco si trasferisse nella vita e l’impregnasse di sapienza e preveggenza e cautela e astuzia… Questo mi accadeva, al tempo in cui malamente giocavo, anche quando ero fisicamente lontano dalla scacchiera, quando potevo pensare al gioco per frammenti di strategia restando quasi freddo, senza un avversario preciso, con un nome e cognome, una faccia. Diverso, molto diverso, era il momento concreto del gioco. Tuttavia non ho mai sviluppato una mente da scacchista, anzi, se mai un animale è stato lontano dall’avere una mente scacchistica quello sono io. Ho la consapevolezza di essere la negazione stessa del concetto di preveggenza e di strategia, ambedue necessarie per giocare, mai avuto coraggio né audacia, mai sentita la competizione, il dover vincere insito nello sport l’ho sempre vissuto come una specie di vergogna ansiogena. La vergogna del sopraffare o dell’essere sopraffatto. L’ansia del vivere ogni momento sportivo come procedimento di reciproca e rituale, ma molto concreta, sopraffazione. Non so gli altri, ma io nei molti sport praticati più che altro per curiosità, quando (molto raramente) ho vinto, ho sempre vissuto la vittoria con una specie di vergogna: dal momento in cui la vedevo profilarsi all’orizzonte, cercavo di evitarla come qualcosa che non fosse per me, che non mi competesse, qualcosa di usurpato e volgare. La sconfitta mi si addiceva molto di più, è stata la condizione pressoché costante in cui sono vissuto, non riuscendo nemmeno a riconoscere, le volte che forse è successo davvero, di aver vinto e meritatamente. Non che cercassi la sconfitta, anzi, ho sempre cercato di vincere tutte le competizioni (sportive e non) cui ho voluto e più spesso dovuto partecipare: ma la mia ricerca della vittoria, del risultato positivo e vantaggioso per me non è mai stata vera, cioè lo sforzo che vi ho speso non è mai stato il massimo che in quel momento e in quelle circostanze potessi esprimere. Ora, per uno che odia sconfiggere almeno quanto detesta essere sconfitto, per uno che si vergogna di vincere come di perdere, gli scacchi non sono davvero indicati. Forse lo stesso vivere, in quanto competizione più o meno esplicita di tutti contro tutti, non è proprio il massimo, per me. Eppure mi piaceva giocare a scacchi, voglio dire la complicazione del gioco, quella che è stata sempre definita la sua profondità. Nell’estate del Settantadue ho passato lunghe ore alla scacchiera nascosto in una stanzetta segreta di una caserma dove facevo il servizio militare. Faceva molto caldo, era in atto un torneo sommerso tra avieri, si giocava e ci si allenava, marce e corvée a parte non c’era pressoché altro da fare, giocare a scacchi nel calore era bellissimo, e tuttavia tremendo. A quel tempo contavo di imparare, di diventare un buon giocatore: solo dopo ho compreso che gli scacchi non fanno per me. Perdevo quasi sempre, perché mi concentravo veramente solo su una zona della scacchiera, quella dove pensavo di stare sviluppando il mio gioco, mentre l’avversario che subito capiva questo mio tremendo difetto, mi lasciava fare per poi infilarmi come voleva: era come nel tennis: subito si capiva la debolezza del mio rovescio e su quelle palle venivo inchiodato. Dopo un po’ la certezza di perdere mi metteva in tensione sin dalle prime mosse, mi sudavano le mani, fumavo compulsivamente, il cuore mi batteva come un martello, mi si arrossavano le orecchie… e perdevo. Era come andare in battaglia con la certezza di soccombere: durante tutta la durata della partita mi chiedevo «com’è che ancora non perdo?», finché la sconfitta non giungeva davvero, liberatoria. Alla fine mi procurai un manuale, imparai qualche apertura standard, compresi che buona parte della forza di uno scacchista è tipologica, che consiste, cioè, nel sapere già quali sviluppi si celano in una determinata posizione dei pezzi, nel ricordare il già fatto da altri, il codificato, e nel partire da lì per costruire il proprio gioco. Come tutto ciò che ha a che fare con la casualità del destino e in genere con la complessità e l’imprevedibilità del mondo, anche per giocare a scacchi occorrono percorsi e procedure storicamente sperimentate, vale a dire occorre conoscere lo stato dell’arte, il pacchetto vastissimo di esperienza collettiva & sedimentata per ogni situazione delle tre zone nelle quali di solito si divide un evento: apertura, centro partita, finale di partita. Poi, dopo una partita malamente persa in un caffè di Monterosso nella seconda metà degli anni Ottanta, non ho più giocato, non ci ho più pensato. *J. L. Borges, L’immortale (se non sbaglio).

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