giovedì 8 aprile 2010

holbein-christ Andare in un posto lontano soltanto per vedere un quadro è un buon motivo per viaggiare. Stavolta la molla di tutto è il Cristo morto di Holbein che sta a Basilea. È ancora più bello e impressionante di quello che credevo. Basilea la pensavo diversa, più antica e medievale, anche se è antica e medievale, ma in modo diverso da come uno pensa una città antica e medievale, dove ci si aspetta di vedere in modo inequivocabile il tempo trascorso, mentre qui ogni cosa – tranne una grossa torre di vetro e qualche altro oggetto sicuramente contemporaneo – anche la più decrepita pare resa omologa a ciò che la circonda. Il Reno è già molto largo, con singolari barche-traghetto agganciate a un cavo di acciaio, altissimo sul fiume, in modo che il traffico di enormi, modernissime, chiatte non abbia problemi. Sulle barchette-traghetto mi colpiscono le fioriere inserite nella murata, con piantine, erbetta: le piante sulle barche le ho sempre considerate un contro-senso La cattedrale è tozza, decisamente brutta, piena di gente canuta in attesa di uno Stabat mater di Haydn che sarà suonato alle sei del pomeriggio. La sera vanno in giro frotte di giovani, le strade sono invase da una rete efficiente di tram, ogni linea colorata in modo diverso, le vetture sono molto strette, alte. «C’è tutta quell’arte nordica depressa, bella…» mi ha detto Nicola prima che partissi, quando abbiamo parlato del Kunstmuseum di Basilea. Rifletto su quell’aggettivo: depressa. Nicola mi sorprende per l’esattezza sintetica di certe sue definizioni: anche stavolta ha centrato il bersaglio: non che l’arte tedesca tra il Quattrocento e il Seicento possa considerarsi davvero oggettivamente depressa, è che sembra depressa a noi mediterranei e capire il perché di questo (oltre al percepirlo) per me è difficile. È tutto talmente gotico, è come se mai fossero usciti dal gotico, come se fossero restati per sempre in modalità gotica: le figure allungate, i colori accesi, pittura minuziosa polita, lucida, zeppa di particolari, i panneggi abbondanti, metallici, come se a quel tempo per vestirsi si usasse lamiera colorata al posto della stoffa. È come se niente potesse essere tralasciato o peggio, sintetizzato, come se compito del pennello gotico fosse quello di inseguire ogni cosa per dirla esattamente com’era, in modo che si potesse innanzi tutto ri-conoscerla, come se l’esattezza nella resa di una suppellettile, dell’elsa di una spada, o metti di un paio di zoccoli, fosse la prima certificazione della verità sacra dell’intera figurazione. Come se ogni Cristo In Croce abbia diritto a tutte le sue piaghe, nessuna esclusa. Come se la prossimità della sua morte esigesse ad ogni costo una resa livida dell’incarnato, da noi molto più rara. La carne prima di tutto e la sua sofferenza. E poi la gravità del vivere, la serietà del peccato, l’irreversibilità delle conseguenze dell’agire. Per dirla alla grossa, tutto questo è gotico, se per gotico si intende, più che uno stile architettonico (peraltro nato in Francia), quel tipo di cultura a nord delle Alpi che fu capace di produrre la Riforma. La cultura madre di Durer, Holbein, Cranach, dei Bruegel e Bosch, e Rembrandt e Vermeer, di Otto Dix, di George Grosz (Simmel accomuna le culture visive nordiche pre-neoclassiche nel rifiuto della forma idealizzata) e di moltissimi altri, artisti e non, che alla fine hanno costruito l’era del Moderno, con tutte le annesse conseguenze. Per quel che ne so, è la cultura che ha generato il potente romanticismo tedesco e prima di questo il neo-classicismo più assertivo e intransigente d’Europa… Una cultura che mi appare immensa e complessa più di ogni altra, sostanzialmente incapace di indulgenze e estetismi, se non nell’imitazione e nell’assorbimento di estetismi altrui. Hans Holbein il Giovane (1497-1543) si sottrae alla rigidità delle figure, alla resa maniacale dei contorni di oggetti e persone, eccetera, ma al fondo, la tragedia assoluta del Cristo morto di Basilea attinge alla stessa fonte gotica di tutto il resto: difficile credere che quel cadavere dal volto e dalle estremità bluastre possa mai essere risorto. La morte è morte, sembra dire Holbein, e dopo per noi non c’è più niente da fare: se Cristo è risorto lo ha fatto a partire da qui, da questa ineluttabile condizione post mortem: sta a noi crederci.

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