mercoledì 28 aprile 2010

Qualche domanda su porte e muri

TERRAZZA SUL MARE_piccolo_2 Occorre immaginare un muro. Non sappiamo chi e perché l’abbia costruito, perché della maggior parte dei muri, pure così importanti per noi, non si conoscono i costruttori. Che sia in mattoni o in pietra o intonacato o in cemento naturale, non ha, per ora, importanza. Mettiamo che sia molto alto, quattro metri, un semplice muro fine a se stesso che separi lo spazio che percepiamo da quello che, al di là del muro, ci è ignoto. Questo muro non sorregge nulla, funge solo da diaframma. Ci impedisce, sia di vedere cosa ci sia al di là, sia, concretamente, di andarci. Ora si suppone che si crei in noi, che siamo al di qua di questo manufatto, una sommessa & normale curiosità per tutto ciò che c’è oltre il muro. Si crea cioè una sorta di tensione, come una differenza di potenziale tra i due semispazi creati dall’esistenza del muro. Naturalmente non è una tensione reale, è una specie di squilibrio che risiede nelle nostra mente ed è esclusivamente provocato dall’esistenza del muro. Mettiamo che qualcuno ci abbia riferito o raccontato qualcosa circa ciò che esiste al di là del muro. Che ci abbia detto di un giardino, o di un patio, o di un panorama o di una terrazza, di una piattaforma, di una città o di un orto. Oppure di una semplice casa. Oppure del Paradiso, o dell’Inferno. O del Nulla. Ogni narrazione ogni elemento di informazione sulla natura e le dimensioni dello spazio oltre il muro, non fa che accrescere la tensione che è in noi. Questa tensione non è altro che desiderio di conoscenza, voglia di fare conoscenza con questo semi-spazio, di esperirlo. Ma questa esperienza, che a parole nessuno ci vieta, ci è impedita dal muro stesso e in modo assai perentorio, energico, efficace. Il diaframma ci appare costituito di elementi, tipo mattoni o pietra, oppure di materiale uniforme, come intonaco o il cemento. C’è del lavoro nell’opera-muro, e si vede. Tutta l’energia che vi si è accumulata si è come rappresa durante il lavoro per costruirlo ci viene ora restituita al tocco sotto forma di solidità e robustezza. Lo sforzo per sollevare mattone dopo mattone sino alla posizione stabilita e, prima, il lavoro per trasportarli sul cantiere, il lavoro per cavare la pozzolana e la calce e impastare la malta a piè d’opera, tutta la forza e l’energia spesa in questo lavoro, sono là, congelate nel muro. L’energia del pane e frittata o della gavetta di pasta del capomastro e del manovale, vi è anch’essa rimasta in gran impigliata. Non è una metafora, è esattamente così, direi che è matematicamente così: la forza di un muro sta quasi tutta nella la forza che ci è voluta per costruirlo. Questa energia serve inoltre a mantenere la tensione tra le due facce del muro, serve a separare due mondi che invece vorremmo poter mettere in comunicazione. Immaginiamo ora di camminare lungo questo muro e di imbatterci all’improvviso in una porta, in un’apertura rettangolare alta un po’ più di due metri e larga pressappoco novanta centimetri, chiusa da un battente di legno o di qualsiasi altro materiale vogliate figurarvi. Dunque tra i due spazi, tra i due mondi, quello che conosciamo al di qua del muro e quello ignoto al di là, c’è effettivamente una comunicazione: è una porta, una semplice porta, che improvvisamente ci promette l’attraversamento del muro, l’annullamento della tensione che instaura. Tutta la tensione tra le due facce si accumula improvvisamente lì, attorno e sulla porta, preme sull’anta, filtra dalle sconnessure tra le tavole e tra queste e il telaio. Quell’apertura, del tutto ordinaria, totalmente comune, si carica di significati. Il mondo sconosciuto che qualche istante prima era oltre il muro, inaccessibile, adesso non solo è diventato accessibile, ma è dietro quella porta. Non solo, ma se è diventato possibile entrarvi, attraverso la porta, per la stessa porta qualsiasi entità o creatura si trovi al di là del muro potrà accedere al di qua, entrare nella porzione di spazio conosciuta. La porta a sua volta potrà diventare la porta di quel qualcuno/qualcosa che è al di là, perché se c’è un muro c’è un atto insediativo compiuto da qualcuno. La porta del Paradiso o dell’Inferno o del giardino o del Nulla: le possibilità sono praticamente infinite, anche se sulla base della nostra esperienza e della conoscenza dei luoghi al di qua del muro, sappiamo cosa possiamo escludere che ci sia oltre il muro. Ciò nonostante, quella porta, ma credo che la cosa sia valida per ogni porta, diviene, un dispositivo di accesso all’ignoto e dunque un oggetto simbolico di ciò che ad ogni istante può accadere, dell’incertezza e dell’insicurezza dell’esistere. E contemporaneamente della promessa che la vita ci fa nel suo rinnovarsi ad ogni istante. Dalla porta può entrare ogni sorta di ente. Ma da una porta aperta sul mondo, sull’universo, possiamo fuggire via per sempre. Mi vengono in mente una quantità di porte simboliche. Le Colonne d’Ercole, porta dell’ignoto per antonomasia. Ma anche la porta di Sentieri selvaggi, di John Ford, che si apre sul deserto della Monument Valley, su un tramonto di fuoco carico di tragedia: subito capiamo che quella porta non reggerà all’impatto con la violenza e la morte. La Sublime Porta, che non ho mai saputo cosa in concreto fosse, ma di sicuro simboleggiava il potere del sultano ad Istanbul. La Porta del Paradiso, la Porta dell’Ade, eccetera. Il portale web. Le porte su altri mondi nel romanzo Hyperion, di Simmons. La Porta Santa in S.Pietro. Le porte della città, come accesso all’internità della civitas. Eccetera. Per tutta la vita non facciamo che aprire e chiudere porte, fisiche e metaforiche e simboliche. Non facciamo che attraversarle per entrare e uscire da luoghi fisici e/o mentali. Transitiamo da interni verso esterni e viceversa, ed ogni esterno (ed ogni interno) è sempre relativo a un grado maggiore di internità e ad uno di esternità. Le porte ci danno l’accesso a spazialità più o meno domestiche e intime, più o meno racchiuse o aperte. Attraverso le porte possiamo vivere quell’intera famiglia di spazi che chiamiamo casa, nella quale possiamo convivere con altre creature proprio grazie al dispositivo porta, con il quale le includiamo o le escludiamo dallo spazio che usiamo in quel momento. Quando ragioniamo apriamo e/o chiudiamo porte concettuali tra vari insiemi e sotto-insiemi di oggetti pensabili, mettendoli in comunicazione tra loro oppure raggruppandoli o separandoli od escludendoli l’uno dall’altro in modo sempre diverso. Ci piazziamo sulle nostre soglie mentali e controlliamo che ciò che vi transita sia abilitato a farlo, che abbia i requisiti richiesti. E chiamiamo coerenza la nostra severità di controllo. E chiamiamo lucidità la capacità di separare e dislocare con chiarezza il flusso di oggetti mentali da una stanza all’altra. Si può ipotizzare che la nostra necessità di suddividere in spazi diversi la casa e di separarli mediante porte che ci diano la facoltà di metterli in comunicazione o meno l’uno con l’altro, sia collegata al nostro modo di pensare per incessanti unioni o separazioni? Oppure: si può ipotizzare il contrario e cioè che la necessità che abbiamo di gestione dello spazio di nostro dominio per suddivisioni e accorpamenti abbia generato il nostro modo di pensare? In sostanza, la concettualizzazione seguirebbe la gestione materiale dello spazio o viceversa? In fondo che bisogno avremmo di porte all’interno di una casa? L’unica porta veramente necessaria sembra essere quella d’ingresso, aperta nel diaframma perimetrale, che ci dà accesso all’esterno e viceversa. Le porte interne mi appaiono come dispositivi che ci consentono un ordinamento dello spazio domestico, affinché le funzioni e gli oggetti afferenti le diverse attività non si mescolino e si confondano tra loro. In questo modo possiamo fare di ogni camera una stanza, cioè un sotto-universo omogeneo e autosufficiente per una famiglia di funzioni collegate, accorpate camera per camera. La porta ci consente di accentuare l’internità di ogni involucro, fine a farne un dominio nel quale, con piacere, possiamo rinchiuderci. Eccetera.

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