sabato 29 maggio 2010

Da una nota del giugno dell’anno Duemila

Ogni tanto ci capita di incontrare in un libro, come in qualsiasi altra lettura, una parola o una definizione in cui riconosciamo, di colpo e a volte con sgomento, noi stessi. Dovetti interrompere la lettura di Memorie del sottosuolo di Dostoievskji perché l’io narrante a quei tempi mi corrispondeva troppo (chissà che effetto mi farebbe oggi) e non potevo sopportarlo. La stessa cosa mi è accaduta con qualche altro romanzo, cioè di trovarlo insostenibile perché per me troppo vero per me. Ultimamente sul libro di Frederic Raphael, Eyes wide open, ho trovato la parola «auto-anestesista», alla quale aggiungo il trattino come faccio con tutte le parole composte, o quasi. Raphael la lascia senza una definizione, e l’applica a alcuni aspetti della personalità complessa di Stanley Kubrick.
Improvvisamente e automaticamente ho capito di essere anch’io un auto-anestesista: questo riconoscimento fulmineo mi dà da pensare e mi spinge a cercarne una possibile definizione. Chi è l’auto-anestesista e come si comporta? Raphael ne parla come se fosse una forma di auto-lesionismo e forse è proprio così. Secondo la prima definizione che mi viene in mente, l’auto-anestesista sarebbe colui che, pur lasciando aperte le ferite della vita, mette a punto un sistema per attenuarne o eliminarne, almeno temporaneamente, il dolore. Le incapsula da qualche parte nel cervello, le incista in un involucro protettivo, le rinchiude in una stanza a doppia mandata e poi per sicurezza ne mura la porta. Il sistema funziona però solo parzialmente. Il dolore si assopisce pronto a ricomparire appena qualcosa, un pensiero fuori controllo, una situazione sgradevole non cercata, le bizzarrie di un sogno, spaccano l’involucro difensivo lasciando che l’intruso dilaghi nella mente. L’auto-anestesista non cura le sue ferite (tutti ne abbiamo), non ne è capace, oppure non crede nella guarigione, o è troppo pigro per farlo, o vorrebbe, ma non sa neppure da dove si comincia. Sanare le proprie ferite comporta comunque un’agire, un’azione, un fare. Ma non direttamente su di esse. Quella forse che può servire è un’azione indiretta, un vivere che vada nella direzione opposta da quello che ci procura il vulnus. Solo così potremmo sperare di cancellare, almeno parzialmente, le lesioni, riparandole e stuccandole con la vita, con l’azione. L’auto-anestesista è invece sostanzialmente immobile, innamorato di due cose: delle proprie ferite, e di una sorta di nostalgia recriminante del proprio passato. Ama le proprie sconfitte, le coccola, sa che il Messaggio dell’imperatore ormai non lo raggiungerà più, perché lui non ha mai voluto essere raggiunto. Vive in standby schivando per quanto possibile ogni cosa che possa strappare la crosta sottile delle sue ferite: un libro, una conversazione, un pensiero, un film e, soprattutto, una situazione difficile, di conflitto, che lo possa vedere – come nella maggior parte dei casi – perdente. Il suo è auto-lesionismo passivo, impercettibile eppure sempre presente, in ogni istante della sua vita. In questo quadro il sonno ha, per l’auto-anestesista, un’importanza decisiva. Dormire, dormire e ancora dormire: il sonno è l’unica forma di anestesia naturale di cui disponiamo, anche se in molti casi si rivela un sanguinoso tradimento, perché è capace di sradicare, attraverso la forza perversa dei sogni, le cose annidate «in fondo», quelle che sappiamo ma di cui non parliamo neanche a noi stessi. Chi chiama questa roba «inconscio», faccia pure: l’unica obiezione è che l’auto-anestesista sa bene da cosa si protegge. In generale però il sonno funziona egregiamente da coperta mentale. L’auto-anestesista sviluppa col tempo strategie di addormentamento indolore: pensieri neutri come la costruzione di una canoa per fuggire da un’isola, di una casa di legno; oppure un problema tecnico qualsiasi. Niente che attenga, o possa ricordare, la realtà quotidiana, il lavoro, il passato, i dolori, le cose da fare mai fatte, le invidie, le cazzate irrimediabilmente compiute, eccetera. Di recente Slavoj Zizek ha definito l’inconscio freudiano come «le cose che non sappiamo di sapere», oppure, citando Lacan, «la conoscenza che non conosce se stessa». Il rimosso dell’auto-anestesista cui mi riferivo dieci anni fa non è di questo tipo. Sono cose che conosciamo bene, che bussano alla porta della nostra mente cosciente, quelle da cui dobbiamo difenderci dormendo, pensando il più possibile ad altro, stordendoci davanti alla tv. Dall’inconscio, se esiste, non ci salva nessuno, men che meno gli psico-analisti, che ricavano di che vivere dalla nostra speranza di pulizia «interiore», per insegnarci, alla fine a convivere con l’immondizia. Invece al conscio rimosso possiamo sottrarci mettendoci una pezza e rinforzandola giorno per giorno, badando che non ceda.

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