lunedì 24 maggio 2010

My father

Ho grosse orecchie a sventola.
Ma ho un viso intelligente e simpatico.
Ed effettivamente sono intelligente e simpatico.
E soprattutto alto, altissimo.
Quest’altezza l’ho presa da mio padre.
Almeno così ha sempre asserito la mamma. La mia lagnosa mamma.
Ma mio padre fino a un bel po’ di tempo fa io non l’avevo mai visto.

Il cognome che porto contiene una W, è un cognome anglosassone, neanche troppo comune.
È perché mio padre è americano. E sta in America. Io lavoro alle Poste, Ufficio Materiali di una sede importante. Finite le scuole ho fatto quel concorso e sono finito lì: lavoro poco e soprattutto in modo rilassato. Odio ogni forma di tensione o stress. Il prezzo da pagare per la tranquillità che mi è indispensabile per vivere è uno stipendio basso e una vita appartata. Niente donne. Non so, non mi interessano. Non ho mai capito tutta questa tensione de sesso che ha la gente. Io non ce l’ho: non mi accoppierei né con una donna né con un uomo né con un animale. Anche se le donne mi piacciono un po’ e talvolta resto imbambolato a fissare la curva arcuata di una schiena innestarsi su un culo tenero e tondeggiante. Anche se le desidero poco & niente, amo sicuramente la loro compagnia. La mia più grande amicizia è con una donna, Alberta. Ha la mia età e, stando alle sue confidenze, ha attraversato ogni sorta di storia, sentimentale e non, alcolismo compreso, lesbicate pesanti comprese. Scopate di tutti i tipi e in ogni luogo: ne potrei raccontare di belle e lei manco se la prenderebbe, perché non le importa nulla che le sue cose si risappiano in giro. Beve e fuma come un investigatore privato americano degli anni Quaranta. E gioca a poker regolarmente. È in analisi praticamente da tutta la vita, sicuramente da prima che io la conoscessi. Non ha mai conseguito un qualche risultato terapeutico apprezzabile, ma in compenso tende a parlarne continuamente, fino alla nausea e alla diarrea altrui. Non ha mai voluto un uomo veramente stabile, anche se con qualcuno è durata qualche anno. Oppure nessuno l’ha voluta, non so. Effettivamente, pur essendo molto bella (anche se adesso è un po’ in là con l’età e gli stravizi si vedono), Alberta è decisamente, irrimediabilmente, e del tutto chiaramente, stupida. Nulla di ciò che dice ha il sia pur minimo carattere originale. Nulla che le appartenga, che sia roba sua invece di provenire da cose ascoltate, lette, viste al cine, ecc. Mai calpestò la terra di questo pianeta una cultrice più coerente e precisa di luoghi comuni della sinistra freudiana (ma cos’è?) come Alberta. Ma lei è la mia compagna preferita di cinema. Cioè, essendo ambedue soli, andiamo insieme al cine due, o anche tre, volte a settimana. Per i restanti giorni ci vado da solo, preferendo sale dove proiettano film in lingua inglese. Il cinema e i libri sono ciò che mi riempie, si fa per dire, la vita. Ma una parte della mia vita rimane pur sempre vuota. La preferisco così, la voglio così: un luogo deserto dove la mia voce interiore possa rimbombare come quella di un imbianchino (da queste parti si dice pittore) al lavoro in una casa nuova. E senza i drappeggi pesanti di una vita affettiva, che poi si logorano, e alla lunga puzzano di polvere e di covaticcio domestico. Dunque dicevo che sono mezzo americano e parlo bene l’inglese, anche se dove lavoro non mi serve a nulla. Mia madre volle che l’imparassi in omaggio a mio padre, cioè all’ufficiale americano di stanza momentanea in Italia durante l’ultima Guerra Mondiale, che la sedusse (lei dice così) e la mise incinta e successivamente, e assai rapidamente, l’abbandonò per tornarsene negli Stati Uniti. Però mi riconobbe ufficialmente come figlio. Per un po’ scrisse che sarebbe tornato e mandava pure un po’ di soldi a mia madre. Poi smise. Insomma la solita storia, successa centinaia, migliaia, milioni, di volte e altrettante volte raccontata. Ho appreso dal cinema e dalla letteratura USA che i maschi americani sono degli abbandonatori professionali di femmine e dei figli con esse concepiti. Le abbandonano, pare, per seguire i loro Nobili Istinti Nomadi che li spingono a percorrere i Grandi Spazi sotto i Larghi Cieli d’America in autostop – autobus – macchina - treno (merci) – caravan, eccetera. Oppure, più semplicemente, perché stufi e perché l’America nasconde bene chiunque non si voglia far trovare. Mio padre non so a quale di queste due categorie di stronzi appartenesse, ma se ne andò in modo subdolo, e subdolamente promise ritorni mai messi in pratica. Forse semplicemente apparteneva alla categoria dei mediocroni-vigliacconi, una specie di Alberto Sordi statunitense. Però. Però conoscendo a fondo mia madre e sapendo quanto è noiosa e inutile e poco interessante e ripetitiva e neppure tanto bella come posso dargli torto? Ma questo lo pensavo un tempo. Ora ho cambiato idea. Accadde infatti che un giorno decisi di mettere in pratica quello che andavo progettando praticamente da quando avevo la cosiddetta età della ragione: fare la conoscenza di mio padre. A quasi quarant’anni avevo un po’ di soldi da parte, ché all’epoca vivendo ancora con mia madre, riuscivo a risparmiare abbastanza facilmente sulle spese vive. Lei insegnava a scuola. Con i due nostri stipendi cumulati e la casa in proprietà non ce la passavamo male. Mio padre non era scomparso. Solo non aveva più varcato l’oceano. Sapevamo che stava in una cittadina del New Jersey a una sessantina di chilometri da New York. Che si era sposato e aveva figli e gestiva un country club privato, con piscina e campi da tennis e una piccola foresteria. Gli scrissi una lettera un maggio di parecchi anni fa e i primi di giugno dello stesso anno mi rispose che sì potevo andare senz’altro da lui, che mi avrebbe conosciuto volentieri, ecc. Si capiva benissimo che quello che in realtà avrebbe voluto dire era una cosa tipo E adesso che c’entra questo viaggio, che vieni a fare, non ti conosco e non ti voglio conoscere, resta dove sei che è meglio. Ma io intignai perché allora pensavo che un uomo ha pure il diritto di conoscere il proprio padre. Alla fine di giugno presi un aereo per New York e poi un taxi fino a Manhattan e poi la metropolitana fino a Oboken e da lì, seguendo le istruzioni di mio padre, il treno fino alla cittadina dove abitava. Lui non era alla stazione. Così presi un altro taxi fino a casa sua. Alberi e stradine piene di curve. Dopo qualche chilometro il taxi si fermò davanti a una casa bianca, di legno, in tutto e per tutto uguale alle altre. Pagai e suonai il campanello e il tizio che mi venne a aprire, mai l’avrei detto incontrandolo per caso in strada, era mio padre. Un vecchio altissimo e allampanato, con le orecchie a sventola, che indossava una tuta in acetato, i piedi, nudi et giallognoli, infilati in un paio di ciabatte di plastica. Così, dopo qualche secondo in cui tra noi il silenzio potevasi tagliare col coltello, gli dissi Hi, can you call me a taxi, please? Lui che mi stava guardando probabilmente chiedendosi E adesso a questo che gli dico? Capì al volo, sollevato, e disse Now? Yes, surely. Entrò per qualche minuto in casa. Tornò e disse Is coming. Restammo in piedi uno davanti all’altro, senza toccarci, né dirci una parola, finché il taxi che mi aveva portato lì non fu di nuovo davanti alla porta. Ci salii sopra e tornai alla stazione.

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