martedì 6 luglio 2010

Contro il MAXXI

Io sono di quelli che non gli piace il MAXXI. Che due palle, certo, sia perché la mia opinione lascia il tempo che trova, sia perché quello del MAXXI è già un argomento decotto, sia perché ora è lì, nuovo di zecca, e ce lo teniamo. E però la questione MAXXI è rilevante non tanto per l’episodio architettonico in sé e per le sue funzioni, quanto per riflettere sul gusto del pubblico cui è destinato, sullo stato della cultura del Grande Ripieno (GR), sul concetto di architettura come intrattenimento, eccetera. Quest’ultimo è un fenomeno planetario che si manifesta in modo più marcato presso le culture più deboli, e investe architetture dalle funzioni più varie e può interessare intere città, come Shangai o Dubai o Singapore, con l’unico scopo di stupire e delectare l’immenso ceto medio culturale internazionale, il GR planetario. Tuttavia voglio attenermi al solo caso MAXXI e nel volerlo fare mi accorgo che non è facile parlare di architettura in un paese la cui intellettualità, magari molto ferrata in arte contemporanea, se ne disinteressa quasi completamente, non comprendendo che la forma del mondo in cui viviamo è architettura, quasi mai riuscita, quasi sempre fallita. Quindi per prima cosa provo a tratteggiare la funzione base di un’architettura espositiva, come un museo, destinato a sede di collezioni permanenti e capace di ospitare mostre temporanee. In architettura si parte dalla destinazione d’uso perché ciò che distingue un edificio da una scultura è la sua attitudine ad essere abitato, vuoi da umani, vuoi da altri oggetti di scala più piccola di qualsivoglia uso: la specificità dell’architettura è riassumibile nella semplice definizione di «forma abitabile». Un’architettura di questo tipo, cioè un museo di arte contemporanea, dovrebbe in linea teorica possedere una prevalenza di spazi, per così dire, neutrali, capaci cioè di farsi abitare dall’oggetto artistico senza interferire con esso più di tanto, senza condizionarlo, senza rivaleggiare con l’opera cercando di situarla in una condizione, del tutto imprevista, di minorità rispetto all’ambiente che la ospita. Senza creare problemi di preesistenze formali tali da condizionare l’allestimento di mostre secondo il criterio scelto di volta in volta dal curatore. Occorre tenere presente che, a meno che non ne conosca in precedenza la destinazione, un artista costruisce l’opera in sé e per sé, come oggetto autonomamente significante rispetto a un eventuale, successivo contesto. Quando l’opera non possiede questa autonomia basica, ma viene pensata per e in un determinato ambiente-contesto, puntando a trasformarlo anche radicalmente (ma di solito provvisoriamente), si parla di installazione, ma in genere anche l’installazione può essere disinstallata per essere collocata altrove, per esempio in un museo. Dunque il museo dev’essere capace di accogliere sia l’opera in sé e per sé, che l’installazione, il video, la performance, eccetera. Quanto più l’arte allarga il proprio campo di manifestazione/azione, tanto più gli spazi che costruiamo per accoglierla et conservarla devono darsi come pura disponibilità, piuttosto che come identità architettoniche a sé stanti, cioè come enti dotati di un’assertiva autonomia formale. D’altra parte il tema del museo d’arte contemporanea ha assunto ovunque, negli ultimi decenni, le connotazioni tipiche dell’architettura di intrattenimento, vale a dire che gli edifici con questa funzione hanno sempre di più un ruolo di icone urbane sorprendenti, attrattive, dilettevoli, capaci cioè di porsi esse stesse, al di là del loro contenuto, come esperienze che vale comunque la pena di fare, quale che sia la qualità dell’arte che ospitano. Nella crescente capacità di attirare masse crescenti di visitatori, i musei d’arte contemporanea sono entrati di prepotenza nel novero delle attrazioni, sottolineo attrazioni, turistiche di una città. E ciò è sicuramente un bene quando l’arte non ne risulta condizionata/penalizzata, lo è molto meno quando, come accade col MAXXI, l’edificio è frutto di una totale mancanza di pensiero sul come si possano coniugare la forza attrattiva dell’icona architettonica con la pura disponibilità interna. Frank Gehry a Bilbao risolve la contraddizione progettando un doppio involucro, eclatante e scultoreo all’esterno, molto più semplici e disponibili le sale espositive all’interno. Analogamente il Centre Pompidou di Piano e Rogers pur fungendo da grande icona urbana, risulta costituito da spazi flessibili e totalmente disponibili all’interno, mentre Wright per Guggenheim di N.Y., vero precursore del museo-icona, aveva optato per una soluzione che fonda la sua singolare & dirompente immagine sull’idea di continuità del percorso espositivo, che era per altro già stata di Le Corbusier, ma in versione poco approfondita e bi-dimensionale. Il MAXXI non appartiene a nessuna di queste categorie: non punta al rinnovamento dello spazio museale (come fa Wright a N.Y., per esempio) e tuttavia condiziona enormemente la funzione espositiva cui è destinato, fino al punto da proporre ambienti col pavimento in pendenza sul quale alcuni tipi di opere non possono trovare posto, se non con accorgimenti specifici. Ma il problema non è tanto la particolarità dell’architettura (anche il Guggenheim di N.Y, per dire, ha il pavimento in pendenza, e non solo, ma lì c’è un’idea museale, discutibile quanto si vuole, che sostanzia le scelte formali)*, quanto la gratuità della forma in cui si manifesta, vale a dire la mancanza di una vera proposta spaziale, la para-espressività di alcune scelte (metti le scale tremule sospese nel vuoto, i gradini in griglia keller sotto-illuminati, eccetera) e la creazione di difficoltà espositive assolutamente non necessarie, in quanto scaturite da un complesso teso a stupire, ma concettualmente vuoto, fondato su soluzioni spaziali e di linguaggio elaborate, in quanto stilemi dei lavori di Hadid, a prescindere dalla destinazione d’uso. Non si vuole qui negare alla Hadid il diritto a una sua cifra stilistica, che peraltro non incontra il gusto di chi scrive, ma si ha la pretesa di affermare che ogni cifra stilistica, se non viene attentamente applicata al tema principale di un edificio, non può non diventare a sua volta espressione in sé e per sé, facendo strame della specificità dell’architettura, che consiste nel predisporre, non forma in sé, ma forma abitabile, usabile e, soprattutto in questo caso, adattabile. Insomma se proprio si desidera épater le bourgeois con il museo di arte contemporanea, si costruiscano pure dilettevoli et bizarre e inaspettate e gratuite icone urbane, ma al loro interno si ponga molta attenzione alla neutralità e alla flessibilità degli spazi, perché quelle stesse icone non fungano poi da ostacolo all’arte che dovrebbero ospitare. Maxxi fuori, white cube dentro. *l'idea museale di Wright si è rivelata subito molto suggestiva, ma profondamente sbagliata per la concezione restrittiva di arte che la sottende: quadri, essenzialmente, ciascuno nella sua brava teca espositiva, di dimensioni standardizzate, molto condizionanti, eccetera.

1 commento:

  1. A me piace il maxxi per hé mi sembra un utero accogliente. Fuori quasi non si vede e demtro è tutto tomd3eggiante, laddove il frank ghery di Bilbao mi sembra una esplosione si sperma.... Però non ho mai guerdato o quasi le opere d'arte dentro il Maxxi con attenzione....

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