venerdì 9 luglio 2010

Appunto sul Poeta delle ceneri

Leggo di Pasolini un poema già pubblicato postumo, scritto nel Sessantasei, chiaramente una bozza, nella recente edizione Archinto, intitolato Poeta delle ceneri, 2010. Pasolini vi parla (vi canta?) di sé della sua poetica, del suo lavoro, della sua visione delle cose, dell’Italia, del mondo. È una sorta di auto-presentazione (1966) in versi, destinata al pubblico americano, che gli era stata chiesta non si sa bene da chi. Il testo è bello, intensamente «pasoliniano», cioè con momenti forti di lirismo e passaggi che sembrano invece poeticamente sciatti, trascurati, oppure saggistici: una cosa incoerente, non finita e però bruciante di quel fuoco che era soltanto suo e che ancora mi affascina. Ancora una volta noto l’ossessione pasoliniana per l’essere borghesi («La borghesia italiana intorno a me è una torma di assassini»), l’odio per l’essere piccolo-borghesi e perbene, stato, quest’ultimo, che lui riconosce in sé: «io, piccolo borghese che drammatizza tutto». E poi: «io, profondamente perbene/faccio questo elogio, perché, la droga, lo schifo, la rabbia,/ il suicidio/ sono, con la religione, la sola speranza rimasta:/ contestazione pura e azione/ su cui si misura l’enorme torto del mondo.» Anche in questo testo Pasolini si dimostra un traditore della sua classe, mentre ne riafferma l’appartenenza: una parte di sé resta ed è sempre restata, «perbene», non ostante attraverso le sue pratiche erotiche e vitali lui abbia sempre cercato fino all’ultimo di depurarsene. E, benché sia tra quelli che rifiutano di considerare a posteriori la morte di Pasolini simbolicamente coerente con la sua traiettoria artistica, anche la sua fine sembra un urlo contro il perbenismo. Tuttavia questi non vorrebbero essere appunti su Pasolini (provo un affetto accecante per la sua figura), ma sull’essere piccolo-borghesi, sull’esserlo stati in passato e sull’esserlo oggi. Premetto di essere anch’io di origine e cultura piccolo-borghesi e dichiaro di essere rimasto anch’io sostanzialmente un perbenista, benché odi il perbenismo. Una vita nell’egoismo perbenista della mia classe di appartenenza, nella viltà delle sue aspirazioni, non mi ha impedito di compiere scelte politiche di «tradimento» e di vivere esperienze oppositive alla mia cultura di origine. Ma, nella sostanza, sono rimasto fedele all’imprinting iniziale. Insomma rientrerei nell’assunto di un vecchio saggio di Hans Magnus Enzensberger «Elogio della piccola borghesia», in cui si sostiene che da questa classe è emerso tutto e il contrario di tutto, rivelandola come il principale motore storico-culturale-economico dell’ultimo secolo. Dalla piccola borghesia sono nati Rivoluzione e Reazione, Socialismo e Fascismo, Conservazione e Avanguardia, Modernismo, Anti-Modernismo, Post-Modernismo, eccetera. La condizione piccolo-borghese, quando esisteva la piccola borghesia cui fa riferimento Pasolini, era quella di una perenne contraddizione della propria ragione di statuto (egoismo feroce, arrivismo feroce, conformismo feroce), nell’allevamento di generazioni al cui interno si annidavano dei «traditori (a vario titolo) di classe». La domanda che mi appare cruciale è se la piccola borghesia e lo stato di infelicità che genera l’essere piccoli-borghesi, esistano ancora oppure no. E qualora esistano, se esistano ancora i «traditori di classe», vale a dire coloro che si odiano in quanto piccolo borghesi. All’indomani dell’accordo tra Fiat e sindacati (FIOM esclusa/inclusa) sul destino di Pomigliano d’Arco, che sancisce ufficialmente la scomparsa della classe operaia (è scomparsa da due decenni, ma fino a eri poteva ancora fingere di esistere…), mi domando dove questa stessa classe operaia sia andata a finire. Quale raggruppamento sociale può averla assorbita se non il Nuovo Ceto Medio, quello che definisco come Grande Ripieno (GR)? Il GR per come lo percepisco (magari non esiste) è più un raggruppamento culturale, che di censo, non contiene scalatori sociali più o meno frustrati, ma solo accumulatori economici il cui premio non è più il salto di classe, ma soldi per essere/apparire ricchi: in poche parole il denaro non è visto come mezzo di promozione sociale, vale a dire come trampolino di uscita dalla classe di origine, ma solo come fatto gratificante in sé, per acquistare merci che servono a mostrare che si ha la disponibilità per comprarle. La cosa per come la vedo io ha un andamento circolare: soldi per comprare oggetti che dimostrino che si hanno i soldi. Nel GR c’è soprattutto condivisione di cultura, di valori. Che ci fanno gli operai con 1.300 euri al mese qui dentro? Niente, ma ne condividono la cultura, le tensione verso il denaro come valore piuttosto che come mezzo. Distrutta dalla globalizzazione (operai di tutto il mondo unitevi) la classe operaia si è atomizzata nella sua componente primaria, l’individuo-operaio, il quale non percepisce più di avere un’esperienza vitale e una condizione umana in comune con altri individui-operai come lui, ma si vede solo come uno sfigato incapace di fare soldi per colpa sua. All’operaio di oggi non interessa di appartenere a un raggruppamento umano che ha giocato e ancora gioca un ruolo centrale nella storia contemporanea, non gli interessa l’appartenenza orizzontale allo strato di quelli come lui. Ciò che gli sta a cuore è la prospettiva verticale (tipica del piccolo borghese) del proprio cambiamento di stato economico, vale a dire un processo che gli consenta l’accesso ad alcuni beni che la condizione di operai gli preclude. In questo, anch’io sono convinto che si sia pienamente compiuta la profezia pasoliniana e quella di Marcuse prima di lui.

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