venerdì 23 luglio 2010

Dieci anni fa, mi pareva di capire...

Capisco in modo che mi pare chiaro e inequivocabile, da Piazza del Popolo, che a alcuni spazi della città compete solo ed esclusivamente il vuoto. Ma è il significato del vuoto che mi sfugge: indipendentemente dalla bellezza di ciò che lo contiene e lo delimita, che certamente non è secondaria nella resa iconica del tutto e che altrettanto certamente non è determinante per conferire valore e significato a un vuoto: il vuoto sembra assumere un ruolo di esaltazione delle qualità di uno spazio, se ne percepiscono ovviamente meglio i dati, i margini, i dettagli: ma non basta: il vuoto è sottrazione di attività, sottrazione di vita e di rumori, incremento del silenzio, sottrazione di forme aggiunte, che siano esse manufatti o uomini o animali: il vuoto è sottrazione di quotidianità da uno spazio: in definitiva sottrazione di senso, del senso immediato che la vita, sotto forma di commerci e di veicoli e di umani in movimento, conferisce alla città: privato di un qualsivoglia uso che non sia quello di accoglierci, lo spazio vuoto ci cala in uno stato di sospensione, ove il fare lascia il posto all’osservare e all’udire e, eventualmente, alla parola. Ma non si tratta di uno stato di riposo, perché il riposo urbano è osservare il movimento del tutto restandone per un certo tempo al di fuori, seduti al caffè, per es., mentre invece il vuoto non riposa, anzi: ci chiama ad un’attenzione speciale, ad un’ascolto di quella parvenza o porzione o immagine parziale del nulla che ci propone. Nessun uomo ha mai compiuto da vivo e senziente la piena esperienza del nulla ed è per questo che il nulla è così frequentemente evocato, se non rappresentato. Ed è per questo che l’idea del nulla si affaccia fascinosa e sfocata alle nostre menti in presenza di un vuoto e del silenzio: il nulla nella città: poesia… Da un punto di vista puramente utilitario una piazza è uno spazio della città di cui si può ipoteticamente fare a meno. Mentre non si può fare a meno delle strade, per esempio. (A Roma esiste almeno un intero comparto della città storica, il Rione Monti, privo di piazze o quasi: è dotato solo di un minuscolo spazio, piazza Madonna dei Monti, la cui superficie non arriva ai 1000 mq.). Da un punto di vista puramente descrittivo, geometrico, una piazza è uno spazio in cui tende a prevalere l’estensione lungo ambedue le coordinate x e y, piuttosto che lungo una sola delle due, come accade nella strada, anche se, per es., piazza Navona contraddice questa definizione, nella prevalenza dell’asse nord-sud sull’asse est-ovest. Capisco altresì, da Piazza di Spagna, che alcuni spazi della città non possono, in alcun modo, essere risolti, perché la vita vi prevale su tutto il resto. Capisco ogni giorno che la città è sostanzialmente una sequenza di errori, interrotta qui e là da errori belli. Ogni affermazione riguardante la “soluzione dei problemi della città” mi appare priva di senso. La città è essa stessa, in quanto città, un problema insolubile. Il suo essere città e il suo essere problema sono la stessa cosa. Non esiste una città, specialmente se possiede un nucleo antico e stratificato, che non sia intrinsecamente un problema. Questa identità appare chiara nel darsi della città come insieme denso, stratificato e fortemente interrelato di oggetti, spazi funzioni e usi in attività per 24 ore su 24, dotato di un basso grado di trasformabilità a fronte del mutamento in accelerazione progressiva dei modi di vita, di spostamento, di comunicazione. Il problema consiste nella difficoltà di ri-formare continuamente e globalmente le varie forme della città. La ri-forma possibile è sempre parziale. La soluzione insegue il problema senza mai raggiungerlo. Le tante riforme parziali sono dunque parte integrante della città nella sua mobilitazione giornaliera. Quindi sono parte del problema. Quando questo o quel politico promette di risolvere, per es. “il problema-del-traffico”, mente senz’altro, magari in buona fede. Il traffico si può migliorare, mai risolvere. Lo stesso concetto di soluzione non è, in questo come in altri casi, afferrabile. Risolvere il traffico significa abolirlo. Migliorarlo significa attenuarne gli effetti negativi sull’ambiente, accorciare i tempi di percorrenza, creare dove possibile assi veloci, ecc. E soprattutto significa costruire incessantemente per anni e anni un rizoma, il più vasto e capillare possibile, di ferrovie metropolitane. Con investimenti enormi. Dunque la città è un organismo costantemente sotto sforzo, come una diga pericolante continuamente puntellata, qui e là consolidata, rincalzata, mantenuta faticosamente ad un livello accettabile di efficienza da un continuo enorme lavoro quotidiano di manutenzione, progettazione, gestione. È un cantiere perenne che si accende qua e là in modo più o meno intenso ogni giorno. È un errore continuamente confermato, anche se continuamente e parzialmente ri-formato, combattuto.

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