mercoledì 21 luglio 2010

Un appunto sulla fine degli Intellettuali

Si dice della fine degli intellettuali. Non tanto come estinzione di specie, quanto come sopravvenuta incapacità di incidere, di contare, di esserci, di avere voce in capitolo. In assenza di dati di qualche tipo, tutti concordano su questo, senza però essersi messi d’accordo sul significato del termine “intellettuale”, da sempre intendibile in senso intensivo (il pensatore) o estensivo (chi non fa un lavoro manuale: lo scriba). In genere è inteso come intellettuale solo chi appartiene alla categoria dei «pensatori non specializzati» (Cortellessa), una resecazione che trascura una vasta categoria di persone che ha un enorme peso sulla formazione della così detta «pubblica opinione», sia in senso oppositivo che (molto più spesso) in senso consensuale rispetto al potere. Se si vuole riflettere su questo argomento non si può fare a meno di avere un quadro sociologico del ruolo del pensiero e della sua trasmissione nelle democrazie massmediatiche. Non solo: nell’ambito delle gerarchia socio-culturale, occorrerebbe farsi un quadro “di chi parla a chi”, escludendo in via preliminare che l’intellettuale sia mai stato in grado, quando non si è fatto dirigente politico (Lenin, Trotsky, eccetera) di parlare direttamente alle «masse popolari», facendo a meno della mediazione delle classi dirigenti, le uniche capaci di intendere il suo discorso e di calarlo nella teoria e nella prassi dell’agire quotidiano, ordinario o straordinario che sia. In altre parole l’intellettuale, organico o meno che fosse a un partito politico, è sempre stato un borghese che parlava a borghesi come lui, incidendo solo là dove poteva essere ascoltato e compreso e, finché sono esistite una borghesia e una classe dirigente (economica, politica, culturale) intellettuali, il suo discorso aveva modo di penetrare, sovente non visto, nelle fessure della società, impregnandole. Dalle pagine del Corriere della Sera, Pasolini (sempre lui) parlava ai lettori del Corriere della Sera, cioè a un ristretto gruppo di acculturati e però annidati nei gangli della politica, dell’economia, della società. Il problema è dunque dell’intellettuale e del suo recettore: se scompare o si modifica il recettore, la voce dell’intellettuale non solo cade nel vuoto, ma perde progressivamente i veicoli disposti ad ospitarla, sino a scomparire anch’essa, lasciando il campo a un vasto e molto meno visibile strato di scribi capaci di influenzare in modo indiretto e profondo lo stato mentale del Paese. La mia tesi è che non sia scomparso l’intellettuale, ma che si sia modificato profondamente quello che un tempo era il suo recettore, cioè una classe dirigente che è stata progressivamente riassorbita nei ranghi di uno sterminato ceto medio post borghese, principalmente dedito al culto delle tre effe: fiction, fitness, fashion (Labranca). Su questo Ceto Medio [medietà culturale, non di censo, ché ricchi e poveri vi condividono la stessa cultura (l’orientamento politico conta poco)], che chiamo Grande Ripieno (GR), hanno presa gli scribi, intendendo per scriba colui/colei che opera all’interno dei mezzi di comunicazione di massa, costruendo giorno per giorno l’impalcatura dello stato informativo e immaginativo della società. È lì che si gioca la vera partita ed è dal quel terreno che l’intellettuale, tranne qualche eccezione su cui molto di discute (Saviano, Busi) è stato decisamente espulso. La riduzione culturale dell’università ha fatto il resto, facendo mancare all’intellettuale anche quel prestigio accademico che lo poneva se non altro tra coloro che venivano scelti come consigliori del Principe. Oggi, per docenti e studenti, l’università è un luogo di emarginazione piuttosto che di inclusione, dove vengono esperite mere pratiche di acculturazione minima per masse di giovani sempre più spaesati, de-motivati e soprattutto partecipi dei valori emanati e caldeggiati dagli scribi, con mezzi ben più potenti della lezione universitaria. Allora sono loro, gli scribi, cioè gli intellettuali intermedi tra potere e Grande Ripieno, che lavorano in e per la televisione, nei giornali, nelle case editrici, nelle agenzie di pubblicità, nel cinema, alla radio e in ogni altro luogo da cui si può parlare direttamente alle masse, quelli capaci di incidere sulla coscienza del Paese ed è quindi, banalmente, quello il terreno cruciale della formazione di una cultura di massa post-borghese. Gli intellettuali, intesi come «pensatori non specializzati», possono al più dialogare tra loro, perché nel momento in cui (raramente) si accostano ai mezzi di comunicazione di massa, o ne sono respinti, o vi sono usati secondo le modalità proprie di quei mezzi. Tertium (per ora e fatta salva l’eccezione Saviano, caso a sé molto complicato) non datur. C’è stato un tempo che è durato sino agli inizi degli Anni Ottanta e oltre, in cui una classe di intellettuali-autori, ha sostanzialmente gestito una parte rilevante del discorso trasmesso dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare di quello più potente, la tv, giocando un ruolo decisivo sulla formazione di quella parvenza di culturale nazionale che ancora sussiste nel Paese. Era una cultura scolastica, crocian-gentiliana, se si vuole, perfettamente corrispondente ai valori borghesi della classe allora culturalmente egemone, ma che, anche nella versione più cattolicamente addomesticata, era pur sempre portatrice di principi e virtù civili. Estintasi quella classe egemone, crollate una per una le Case Politiche che per cinquant’anni avevano dato ricovero agli intellettuali, sovente come meri «fiori all’occhiello», proteggendoli, aiutandoli, garantendo loro spazi e risorse, il pensatore non specializzato si è ritrovato nudo come una lumaca senza guscio, privo di protezione ma anche di ascolto, portatore di messaggi che non interessavano più nessuno, perché la cultura della «civiltà montante» (Asor Rosa) era un’altra, egemonizzata da altri, in nome di altri e nuovi poteri. Una volta liberi tutti, ci si aspettava l’avvento radioso di un pensiero finalmente liberato dalle «pastoie ideologiche», ma si dovette constatare che senza ideologia, senza nutrimento nel (e del) politico, il pensiero semplicemente si disidrata e si dissecca, non riesce più a scorrere nel sistema vascolare del Paese, dove ormai scorre tutt’altro fluido, questo sì ancora potentemente ideologico, iniettato da chi per primo è riuscito a «trovarne la vena» (De Benedetti, Carlo).

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