sabato 7 agosto 2010

Pec in Stockholm

Gli piacciono, le scale mobili. Gli sono sempre piaciute, sin da quando la madre lo portava alla Rinascente di via del Corso. Lì ce n’era una, che allora era forse l’unica in città. Qui a Stoccolma ce ne sono quante se ne vuole, così ne imbocca una per andare al terzo piano, Men clothing, a cercarsi un po’ di calzini a colori vivaci, come piacciono a lui, rossi, verdi, blu intenso, viola, indaco. Al primo piano la rampa a salire è rotta. È difficile da credersi ma è così. Salire a piedi su una scala mobile è molto sgradevole, si ha la sensazione di essere defraudati. La rampa che porta al terzo invece funziona. A metà salita sente una sacca di gas intestinale che dolorosamente preme per uscire. Si volta e con la coda dell’occhio vede un bimbo con la faccia proprio all’altezza del suo culo. Se fartasse adesso lo ucciderebbe. È biondo quasi albino bellissimo, come la madre del resto, come tutte le donne che vede e tutte le commesse del grande magazzino. Si trattiene. Al terzo piano legge la lista delle funzioni livello per livello e scopre che i cessi sono all’ultimo. Decide di salire e liberarsi di tutto ciò che indebitamente occupa la parte bassa del suo addome. Per entrare nei cessi occorrono 10 corone da inserire nel tornello. Non ha moneta, la guardarobiera al banco lì accanto gliene fornisce una, cioè una specie di gettone col marchio della ditta. Entra, orina, ma l’emergenza gas pare rientrata, riassorbita nell’organismo, anche se sa bene che tra qualche minuto si ripresenterà. Esce, in cerca del reparto biancheria maschile. Questo grande magazzino boreale è uguale a tutti gli altri che ha avuto modo di visitare nelle grandi città d’Occidente. Niente di diverso & specifico, le stesse ditte, gli stessi marchi in quanto marchi, più o meno gli stessi prezzi. Si sta realizzando l’omogeneizzazione del Mondo Occidentale. Forse c’è ancora qualche piccola differenza politica. Governi più o meno di destra, più o meno laici, vicende novecentesche diverse da paese a paese, hanno prodotto democrazie più o meno compiute et avanzate sul piano dei diritti, delle diseguaglianze, dei servizi, del consumo di risorse. Ma nel complesso si tratta di dettagli. Importanti ma pur sempre dettagli. Una volta uscito di lì Pec si costringe come al solito a osservare attentamente ogni oggetto, la forma degli edifici, il tipo e il numero dei dispositivi tecnici di cui la città si dota. Constata ordine e pulizia, assenza quasi totale del diffuso delabré che caratterizza la città da cui proviene: qui niente di rotto, no graffiti, marciapiedi puliti, semafori eterni, sole radente, edifici lindi e ben tenuti, intonaci perfetti, asfalto delle strade ovunque integro, aiuole verdi con erba tagliata, nessuna forma di leziosità nella grande economia dei segni, soprattutto nella segnaletica stradale. Nei lampioni nessuna ridondanza né materica né di disegno: tralicci semi-trasparenti sostengono i corpi illuminanti senza abbandonarsi a esibizionismi e leziosità di sorta. La cattedrale di Stoccolma risulta di un gotico maldestro, forse non capito, impreciso, povero, anche negli episodi di super decorazione impostati dal fasto di una monarchia che pure in Europa qualcosa ha contato e conta ancora. Dunque questa nazione ha dato il meglio di sé nella modernità novecentesca, cui sembra rimasta saldamente ancorata: finora Pec non ha ancora avuto modo di imbattersi in qualcosa di post-moderno, tutti gli edifici fanno il loro onesto dovere nella semplicità e talvolta nell’eleganza un po’ noiosa della geometria elementare del vetro e dell’acciaio e del cemento armato al grado zero del linguaggio, lasciando tutto il lavoro estetico al pregio dei materiali. Città discontinua questa, che salta di isola in isola affacciandosi su grandi piazze d’acqua su cui prospettano grandi severi edifici, dove fanno avanti e indietro piccoli traghetti bianchi. L’aria circola liberamente in queste grandi interruzioni del continuum urbano, vento fresco, raffiche talvolta violente, persino fastidiose in un clima che non supera i ventidue gradi di temperatura. Il bosco nordico, le placche rocciose levigate dai ghiacci, i massi erratici nell’erba dei parchi, l’acqua. Questi gli elementi ricorrenti in ciò che Pec ha modo di vedere della città. Al mattino il suo sguardo si fissa irresistibilmente sulla tappezzeria dello schienale del sedile continuo che contorna la sala ristorante dell’hotel. Su uno sfondo lucidastro rosso pallido si staglia debolmente un ricamo continuo fatto di piccoli cerchi accostati uno all’altro. Qui e là questo disegno si rompe, si sfrangia come sotto gli effetti di un bombardamento, come in seguito all’errore di una macchina cucitrice. Cerchi che si deformano e si annullano, si aprono uno all’altro, creano aree libere. Facendo colazione è stranamente impossibile distogliere lo sguardo da quelle piccole catastrofi, confrontarle tra loro, definire le ricorrenze dello stesso disegno, accorgersi dell’intenzionalità del tutto. Bambini educati dai capelli talmente biondi da essere quasi bianchi, belli, bellissimi, la pelle chiara, paffuti, silenziosi, mangiano radunati nei loro gruppi famigliari: giovani coppie con due tre figli, ovunque carrozzine, mamme snelle, bellissime, apparentemente moderne nello svolgersi dell’eterna funzione materna di allevare prole, di accudirla e parlarne in continuazione con altre mamme, anch’esse alte, snelle, bellissime. Il Vasa è uno degli oggetti più straordinari che Pec, nella sua vita neppure tanto breve ormai, ha avuto modo di osservare. Una macchina del tempo, è vero. Anzi meglio una capsula temporale. Qualcosa di finto e di vero allo stesso tempo. La patina di sostanza conservante mummifica lo scafo gli conferisce un aspetto di cartapesta, così sulle prime Ivo pensa a Capitan Uncino e alla sua nave: 1628, sono passati quasi quattro secoli dall’affondamento di questo vascello dopo soli milletrecento metri di navigazione, in pieno porto di Stoccolma. È bellissimo, stranissimo, reale e immaginario. È reale perché si tratta indubbiamente di quella nave, dello stesso legno. Immaginario perché quella nave è troppo aderente all’idea di galeone secentesco, di nave dei pirati che ciascuno di noi ha nella testa. Una fantastica apparizione nella penombra di questo edificio costruitogli attorno a fargli da museo, così brutto e pretenzioso e invasivo e mal disegnato e disfunzionale, ma non abbastanza da annullare l’impatto con l’oggetto in sé e con i reperti che lo circondano…

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