sabato 22 ottobre 2011

Eravamo tutti lì

Difficile non parlarne. Anche perché apparteniamo al gruppo di paesi occidentali che hanno largamente collaborato, se non del tutto determinato, la sua morte. Gheddafi l’abbiamo ucciso noi per inter-posti combattenti per la libertà. Materialmente ci hanno pensato loro, ma è a noi che principalmente fa comodo la sua morte. Si è detto acutamente che Gheddafi «era la scatola nera degli ultimi 40 anni di politica internazionale». Può essere. Certo è che di questi otto mesi di guerra civile libica sappiamo pochissimo e quello che sappiamo non fa che accentuare l’impressione di una cosa torbida, contraddittoria, manipolata. Però non è detto, potrebbe trattarsi solo della nostra incapacità di comprendere il mondo arabo, o anche solo dalla forzosa scarsità di notizie. Ma non è di questo che volevo parlare.
Mi hanno fatto molta impressione, come immagino a tutti, le immagini del linciaggio e della morte di Gheddafi. La faccia insanguinata stordita terrorizzata del Rais, la concitazione dei suoi carnefici, le continue invocazioni di Allah, come se cercassero un conforto divino per quello che stavano per fare. Il ragazzino che brandisce la pistola d’oro. Su tutto un’atmosfera di ferocia inconsapevole e tribale. Niente di militare, niente di politico, niente di «legale», ma una violenza in apparenza spontanea e «di popolo». Tutti capiscono che non si voleva dover gestire l’imbarazzo di un Gheddafi vivo da processare, per fargli poi far fare (senza alcun dubbio) la fine di Saddam. Eccetera. Ora il punto è che un conto è vedere la Storia nei sui passaggi cruciali e un conto è sentirne o leggerne solo il racconto. Nessuno riuscirebbe a parole a rendere in modo così vivido, come quei pochi minuti di video di cellulare, cosa è stato il morire di Gheddafi. Improvvisamente la Storia ti salta addosso, ti aggredisce con la sua crudezza, il sangue, la documentazione della sopraffazione fisica di cui è tutta intrisa e venata, come una bistecca lo è di grasso. La narrazione organizzata e pacificante finisce dove comincia il documento, che, quando è (raramente) nudo e crudo come questo, è un’altra cosa, non passa per il cervello, non sollecita l’immaginazione, ma si indirizza da un’altra parte, in altre zone della mente. Per capire anche solo qualcosa del clima della Primavera del Cairo occorre guardare quei due o tre video di furgoni (apparentemente di privati) che si lanciano a tutta velocità sui manifestanti e li schiacciano sotto i nostri occhi: quando è possibile che, nello spazio civile della città, accadano cose del genere, significa che tangibilmente l’ordine costituito è rotto e, prima che se ne costituisca uno nuovo, tutto può succedere. Quei video ti mostrano concretamente qual era il clima di quei giorni e ti coinvolgono nella forza dell’emozione collettiva allora dominante. Insomma è ovvio: una cosa è ascoltare la narrazione della decapitazione di Luigi XVI e una cosa è assistervi. Assistere è partecipare all’evento, dargli un senso.

Nessun commento:

Posta un commento