martedì 26 luglio 2005
Il Baretto del Maratoneta
Devo dire del Baretto sotto casa mia.
Quando, agli inizi degli anni Novanta, dovetti fare l’ennesimo cambio di vita, lasciare l’ennesima casa, separarmi da un’altra esistenza e venire qui, ad abitare in questo quartiere che non mi piace, anzi che mi fa proprio schifo, questo Baretto pre-esisteva.
Era l’unico punto di ritrovo e vita sullo Stradone e prima della Curva.
Dopo la Curva, verso il Centro, non c’è nulla di umano per un bel tratto, se si eccettuano due negozioni deserti (uno di mobilacci finto-antichi con cacche di mosca finte anche loro e l’altro di ferri battuti su cui meglio non indugiare con lo sguardo), il Sottopasso, la Centralina ENEL , l’ingresso a un deposito di materiale edile, il Vecchio Ponte della Ferrovia Vaticana e il grosso efficiente benzinaio, nonché uno o più groppi di cassonetti.
Ci sono anche altre cose, di cui vi risparmio l’elenco, tra le quali la nuova stazione della metropolitana e il nodo di scambio con la FM 3, il tutto accuratamente ricoperto di graffiti.
Prima della Curva, a salire, non c’è niente lo stesso, tranne un concessionario Renault veramente grande e sempre apparentemente deserto (dove una volta sono pure entrato per chiedere il prezzo della Twingo), un grosso incrocio malamente semaforizzato, un altro benzinaro con il casotto dipinto di Blu Klein e infine un negozio di moto e accessori per moto, che è anche un Centro Culturale per motociclisti.
Poi, a salire, la città continua, a cazzo come quasi ovunque, qui.
Dunque il Baretto in questione era una specie di faro nella notte, un focolare acceso nel nulla di una fredda banchisa polare, eccetera.
Baretto infimo, sporco, gestito da una signora di colore di origine somala, simpatica, e frequentato da manzi locali, ora dispersi, che parlavano tra loro, continuamente e solo, di calcio.
Questi manzi erano capitanati dalla figura tragica di un tipo rosso, coi capelli lunghetti arricciati sulla nuca, di quelli che si vede a occhio nudo che slittano indietro rispetto agli altri, di quelli che al Baretto ci credono e vi si dedicano e non se ne staccano più per il resto della vita.
Un giorno la signora disse me ne vado in pensione da mia figlia in campagna.
Fece una festa d’addio coi manzi del calcio e se ne andò.
Seguì un lungo interregno, segnato dalla chiusura del locale, durante il quale non si sapeva dove prendere un caffè nel raggio di un chilometro.
Il Rosso lo incontravi che se ne stava seduto da solo su certi gradini lì dietro (dipinti di giallo-rosso dai tempi dell’Ultimo Scudetto) ad aspettare che verso sera si facesse vivo qualcuno della vecchia cricca dei Parlatori Di Calcio (PDC).
Poi il locale fu completamente rinnovato e riaprì, gestito da due fratelli e dalla famiglia del maggiore dei due, composta di madre e due figlie giovanissime.
Devo dire di questi due fratelli.
Il maggiore era cordiale, piccolo di statura e gran maratoneta, non ostanti i suoi sessant’anni.
Il minore, scapolo e molto depresso, era più alto e smilzo, gran fumatore con lo sguardo amareggiato, la barba lunga e una smorfia perenne sulla faccia affilata.
Al banco però c’era Sharif, ragazzo egiziano vivace, che se ne fotteva di calcio e col quale parlavi di tutto.
Sharif aveva fatto il liceo in Egitto e voleva iscriversi all’università italiana. Chissà ora dov’è e se poi s’è iscritto.
Un giorno mi disse che la scuola egiziana non insegna, della filosofia occidentale, nulla che vada oltre Aristotele.
Se ci pensate è logico, ma la cosa colpisce lo stesso, perché dà la misura dell’estraneità delle due culture, la nostra e la loro.
Sharif dimagriva, impallidiva e si sciupava molto durante il Ramadan e io ero sempre tentato di dirgli: Sharif guarda che Allah non esiste, e manco il dio nostro, sai?
Cioè volevo dirgli che il Ramadan è inutile farlo, ma per fortuna non gliel’ho mai detto.
Io lo so che spesso dico cose che non dovrei dire e lo so proprio nel momento in cui le dico.
Ma questa volta lo sapevo prima.
Sharif mi chiamava “archedetto”.
“Buongiorno archedetto”, diceva.
Mai riuscito a farmi dare del tu.
Sharif era molto bello e, secondo me, scopava molto in giro, anche se questo scopare doveva rinforzare in lui l’idea di un Occidente Corrotto.
Perché quest’idea ce l’aveva, eccome.
La sua presenza attirava qualche ragazza nel locale, ma lui le guardava con imperioso sguardo di distacco.
Poi se n’è andato e al suo posto è arrivato Stefano, il fidanzatino di una delle figlie del maratoneta, biondina musona e piccolina, con tette orgogliose e culo tondo (lo so che non si dice “culo”).
Lei avrà avuto sì e no diciott’anni, lo sguardo fisso e passava molti dei suoi pomeriggi in silenzio, seduta al banco dalla parte dei clienti: ogni tanto Stefano si sporgeva e smack, bacino.
Per il resto Stefano appariva come morto dentro, una specie di automa con gli occhi dolci.
La mamma della ragazza era gentile e anche lei possedeva un grande culo carnoso: faceva dei panini discreti e teneva il locale molto pulito.
I PDC sparirono, non so il motivo, per tutto il tempo di questa nuova gestione.
Vagavano nei paraggi, come animali cui è stato distrutto il nido.
Il maratoneta intanto andò un paio di volte a fare la Maratona di New York.
Se la cavò non male e appese nel locale un paio di foto che lo ritraevano al traguardo in Central Park.
Poi l’intero gruppo parentale, cioè i due fratelli più la famiglia del maratoneta e forse Stefano il fidanzatino, trasmigrò in un altro locale che possedevano, più redditizio, e il Baretto fu affittato.
Fu l’inizio della discesa.
Il nuovo gestore aveva l’aria da maranga, faceva panini schifosi, teneva il locale sporco e la radio a palla su Renato Zero: a Roma c’è la piaga del culto di Renato Zero, attizzato da qualche radio privata.
Al banco una ragazza polacca, che, palesemente, gliela dava.
Ma il Baretto sotto casa mia non è un posto buono per fare soldi: dunque, persa, non so perché la licenza per vendere i tabacchi, il nuovo gestore se ne andò.
Ne venne un altro, con gli occhi arrossati da una perenne congiuntivite, tornarono cauti, non so perché, i PDC, la nuova barista era anche lei polacca, di quelle donne belle ma col naso sbagliato, che vorresti pagargliela tu la plastica solo per rimettere le cose a posto, un po’ come quando aggiusti l’orizzontale di un quadro.
Poi anche l’uomo basso con la congiuntivite se ne andò e il Baretto slittò ancora più in basso.
Ora c’è una famiglia di ciccioni, che ha instaurato un orrendo Bicchiere Per Le Mance, poggiato sul banco sopra un tovagliolo di spugnetta verde, pieno di monete e riempito di putrido liquido blu.
I panini se potessero ti salterebbero al collo urlando: salvami, portami via di qui.
I PDC residui sono tornati.
C’è anche il Rosso, seduto al tavolino, che legge uno di quei giornali che ti danno gratis, che si chiama Metro.
La radio a palla trasmette Vasco e Biagio Antonacci.
Dimenticavo: per tutti questi anni il Baretto non ha cambiato la marca del caffè che serve, cattivo e aspro come un elettroshock.
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