Non sono vegetariano, però non è che proprio mi piaccia più tanto mangiare animali.
Quando, raramente, vado dal macellaio non riesco più a vedere il materiale sanguinolento disposto sul banco – dentro l’apposita teca, sotto l’apposita luce vivificante – come «carne».
Lo vedo piuttosto come un insieme di pezzi anatomici di animali morti, cioè uccisi e successivamente sezionati secondo criteri corrispondenti ai dati bio-strutturali di ciascuna specie.
Polli con cresta rossa e pelle gialluta, le cosce gonfie, violacee soprattutto dei tacchini, le teste con gli occhi chiusi, le zampe gialle con tracce di penne, i grossi diti unghiuti rilassati e arresi.
Eppure mi piace un buon pollo ben cucinato.
Teste di coniglio allucinate e scorticate, sanguinolente, che trasmettono una disperazione assoluta, il compimento di un destino ineluttabile, già scritto alla nascita di ciascuna di queste creature, per quanto piccole, graziose possano essere.
Eppure il coniglio alla cacciatora…
Teste di capretto spaccate a metà lungo l’asse di simmetria bilaterale, gli occhi come palle bianche, sporgenti dalle due metà di quello che fino a poche ore fa era il muso di un animale caldo & vivo, capace di leccarti la mano perché gli va.
All’Isola i capretti lo sanno sempre quando stanno per morire, belano di disperazione, ma nessuno è mai accorso a salvarli.
Eppure mi piacciono il coscio di capretto, le costolette d’abbacchio.
All’Isola un tempo si vedevano passare donne la mattina presto con in testa un bacile e dentro il bacile la testa di una capra uccisa (macellata, dovrei dire) da poco, che se ne stava lì, con tutte le corna, santa e decollata come quella di Giovanni Battista.
Non dico della festa di Vroukounta il ventisette o ventotto di agosto quando tutti si trasferivano ( lo fanno ancora) su un promontorio della costa occidentale a celebrarvi una festa ancestrale, con grandi banchetti e danze notturne estenuanti per la quale venivano sgozzati sul posto una mezza dozzina di capretti da cucinarsi poi all’aperto, stufati in grandi pentoloni.
Nei pressi dell’approdo una spiaggia che prosegue in un grotta, lì c’è ancora incastrata tra le rocce una sbarra d’acciaio per appendervi i capretti morenti a dissanguarsi nel mare, mentre l’acqua della baia diventava rossa.
Gli animali in attesa di essere sgozzati assistevano alla morte dei loro consimili urlando di terrore. Poco ore dopo tutto quel sangue si era disciolto nell’acqua che tornava limpida, come se nulla fosse accaduto.
Homines che per fare festa si arrogavano il diritto di uccidere creature con il loro medesimo status di viventi.
L’abbiamo sempre fatto, seguitiamo a farlo, l’ho fatto anch’io per divertimento e per anni, andando a pesca sott’acqua.
Per ora allevare e uccidere non è evitabile, la vita si nutre di altra vita e non c’è verso.
Basta non credere che sia nostro diritto, che gli animali siano lì per noi, che possiamo far loro quello che vogliamo perché siamo diversi e superiori, mentre siamo solo più forti.
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