Colloqui webbici recenti mi fanno ripensare al liceo che, per volontà e illusione (o irresponsabilità) dei miei genitori, frequentai dal ’59 al ’64 del Novecento in una costosa scuola-collegio di preti, annidata e quasi invisibile al centro di Roma.
La memoria di quegli anni mi perseguita. Erano preti vestiti di nero con al collo una specie di bavaglino bifido, si chiamavano Fratelli delle Scuole Cristiane e insegnavano ai figli dei ricchi o comunque degli agiati.
A quel tempo i romani ricchi o quelli che volevano sembrare tali (era il caso dei miei), mandavano i figli in queste scuole private di preti, che, tranne forse l’eccezione del gesuitico Collegio Massimo, erano di fatto molto peggiori delle scuole pubbliche.
L’abbaglio era che lì si formasse la classe dirigente cittadina e si costruissero rapporti inter pares tra privilegiati che potevano tornare utili, l’idea era che si avesse accesso in ambienti agiati dove per esempio trovare una moglie di buona famiglia. Non era vero e se lo fosse stato sarebbe stato peggio. La classe dirigente vera si formava in licei rinomati come il Tasso, il Mamiani, il Visconti, il Righi, l’Avogadro, eccetera e non certamente in scuole come la mia o come il Collegio Nazareno.
In realtà le scuole private di preti erano frequentate da giovani debosciati et nulla-facenti, figli di negozianti e professionisti, cioè in pratica dai rampolli del Generone, con l’aggiunta dei figli di nobili poco avveduti e di qualche quattrinaro emergente.
Quattrinari erano quelli che apparivano improvvisamente e dal nulla nella ristretta società cittadina con in tasca un sacco di soldi. In genere si trattava di piccoli industriali degli anni del Boom, di commercianti all’ingrosso di rapida fortuna, di concessionari di automobili e soprattutto di costruttori, i proverbiali palazzinari, stirpe alla quale appartenne anche mio padre, finché stranamente non dirazzò e prese una strada che l’avrebbe portato in giro per il mondo a restaurare per conto dell’Unesco fortezze di fango in Oman e minareti in Afghanistan.
Il Quattrinaro fu il protagonista privilegiato dell’orrenda Commedia all’Italiana, che Beniamino Placido aveva definito sinteticamente come la messa in scena dell’epopea del parvenu del Boom e del post-Boom.
Oltre all’insegnamento scadente, le scuole di preti avevano almeno tre particolarità. Primo, non erano miste, secondo, erano frequentate anche da convittori (cioè da giovani reclusi in collegio) e terzo fungevano da rifugio per i bocciati dalla scuola pubblica e in genere per quelli che avevano poca voglia di studiare.
Tutti costoro vi trovavano un’indulgenza compiacente e soprattutto la garanzia di passare all’esame di maturità, le cui commissioni esterne venivano non so in che modo pre-determinate o ammorbidite.
Le scuole di monache per ragazze immagino avessero funzione equivalente, con in più l’obbligo della divisa, che in genere consisteva in mocassini, calzettoni bianchi, gonna blu a pieghe, golfino blu e camicetta bianca.
Niente poteva essere escogitato di più arrapante di quel costume da educande, che le alunne (non comprendendone la carica erotica) subito si toglievano al pomeriggio, contraddicendolo con calze stivali minigonne eccetera, accrescendone il fascino agli occhi di chi, avendole magari conosciute a una festa, le aspettava all’uscita di scuola.
Molti di noi, studenti delle devastanti scuole di preti, frequentavano ragazze che andavano dalle monache e in genere non le trovavamo affatto pie, anzi. Le ragazze apparivano molto meno devastate dalle monache di quanto non lo fossimo noi dai preti. Erano gaie e leggere, divertenti, moderne, spregiudicate, non corrispondevano affatto ai loro omologhi maschili, che erano cupi, incerti, annoiati, instancabili auto-facitori di seghe, incuranti di tutto, precocemente cinici e ben consci che la cosa più importante da fare era tenersi ben stretti i privilegi di nascita.
Aggiungo che i pochi tra questi elegantoni che non erano del tutto disinteressati alla politica, risultavano autentici fascisti, oppure democristiani naturali, endemici.
Per quanto si possa oggi avere una visione mitica della Roma dei primi Sessanta, come della capitale cosmopolita della Dolce Vita, bastava conoscerla un po’ per capire che in realtà si trattava di un disincantato coacervo sociale, dominato da una borghesia immutata nel tempo, torva e provinciale, che presidiava i quartieri post-unitari e quelli scaturiti dal piano regolatore del 1931 (come il quartiere Italia, i Parioli, eccetera), e frequentava, come fa oggi, i circoli sportivi sul Tevere.
Tutto il resto, vale a dire la città della politica, del cinema, della cultura, dell’arte erano innesti provenienti dall’esterno, che non spostavano (e mai hanno spostato) sostanzialmente niente nella mente dello zoccolo duro del Generone.
Ancora oggi è così.
La scuola di preti aumentava il tormento dei programmi ministeriali, costruiti non tanto per informare (e insegnare la vastità e complessità del mondo), quanto per formare future classi dirigenti inculcando nelle loro menti una sorta di neutrale umanesimo emozionale, con funzioni di filtro ideologico primario dei dati della realtà, facendo loro credere che le «scienze umane» vengano comunque prima delle «scienze» tout court, come ancora oggi dimostrano gli scaffali delle librerie (Feltrinelli e no).
Il peggioramento consisteva nell’implementazione di tutto questo con assillanti iniezioni di cattolicesimo elementare, catechistico, che produceva effetti devastanti anche in quelli tra noi che ci credevano.
Dopo un paio d’anni non si era diventati atei solo per mancanza di coraggio. In compenso si diventava furiosi bestemmiatori, per pura disperazione e odio e ribellione contro quell’insufflaggio religioso direttamente in vena, tutti i giorni.
E allora, dalla mattina alla sera, era un continuo sibilare porcoddio & porcamadosca, pure in cappella, soprattutto in cappella.
Cinque anni di pessimo liceo scientifico (che già di per sé è un ornitorinco culturale, non riuscendo ad essere né pienamente scientifico, né pienamente classico, né pienamente inutile), svaccati per cinque ore al giorno su banchi singoli, in giacca e cravatta obbligatorie, cercando di sopravvivere a tutto questo, sopportando una lezione pretesca dietro l’altra, percependo la sofferenza di quelle creature sedute in cattedra, impreparate e vestite di nero con bavaglino bifido, disilluse e frustrate, che chiamavamo professori e più spesso frère (abbreviato in «frè»).
Cinque anni a studiare su manuali come il Lamanna per licei scientifici (era solo una riduzione di quello per il liceo classico), Il problema della scienza nella storia del pensiero, invece che, più ragionevolmente Il problema del pensiero nella storia della scienza, oppure, random, Il problema della storia nel pensiero della scienza, o come un verboso manuale di storia della letteratura italiana, di cui non ricordo l’autore, tutto teso a individuare il punto di raggiungimento dell’arte, cioè di uno stato superiore di indefinibile avvicinamento all’idea di pura espressività, eccetera: mattinate ad ascoltare questa roba, per ore, lezioni burocratiche preoccupate solo di finire il programma.
Oltre alle bestemmie ci si distraeva con gare di caccole, versacci, oscenità varie, fino all’ora in cui finalmente noi, esterni, potevamo uscire, mentre i convittori poveracci, andavano a mensa e poi in sala studio e poi non so, forse potevano persino farsi una passeggiata in città.
L’insegnante di lettere era un viscido e sfuggente e pericoloso serpente in tonaca (mai si capiva cosa pensasse, quali fossero le sue intenzioni, mai un momento di autentica comunicazione tra umani, con lui), il lungo riporto appiccicato sul cranio unto, le labbra tumide e rosse, sempre bagnate di saliva, che non mostrava per noi nessun interesse, né come uomo, né come insegnante.
Uccideva qualsiasi argomento trattasse, perché si vedeva che non poteva fregargliene di meno, che desiderava con tutta l’anima essere altrove, fuori di lì, da quell’inferno pretesco coi corridoi voltati a crociera e grandi vetrate opache, di legno.
Dopo qualche anno venni a sapere che aveva lasciato l’ordine e dopo poco inaspettatamente lo incontrai su un autobus, con indosso una giacca spigata. Per il resto era lui, lo stesso riporto sul cranio unto, gli stessi occhiali di metallo e lenti spesse, lo stesso sguardo smorto, da calamaro spiaggiato. Fui preso da uno strano moto d’affetto e senza rifletterci esclamai «Frè Pancrazio!». Lui si girò, mi guardò, probabilmente mi riconobbe, non disse nulla e si voltò dall’altra parte.
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