venerdì 25 febbraio 2005

Ehm, emozione e consenso

Wim Wenders ha ragione: l’America ci ha colonizzato l’inconscio. Sicché respingerla, ridimensionarla, accantonarla, è molto difficile, tanto che persino le obiezioni alle sue politiche sono lette, da noi, come ripulse culturali, come anti-americanismo. Rimuovere l’America significa lavorare su una grossa parte del nostro immaginario: personale e collettivo. Significa rinnegare ed estirpare la doppia residenza dell’anima nella quale noi europei siamo vissuti dal dopoguerra ad oggi. L’America ci ha fatto virtualmente recuperare, virtualmente ripeto, la “libertà di” alla quale qui in Europa abbiamo rinunciato, privilegiando, almeno in teoria, la “libertà da”. Privilegiando un sistema di garanzie, cioè la sicurezza passiva e collettiva, alle garanzie della libertà di azione necessaria ad una sicurezza individuale e attiva. L’Europa ha alle spalle parecchie rivoluzioni di cui almeno due molto traumatiche e sanguinose, durante le quali si sono ri-definiti storicamente i rapporti tra le classi. E ha alle spalle due guerre tremendamente distruttive, combattute sul proprio territorio, che sono servite alla ri-definizione dei rapporti di forza tra le nazioni. Guerre cui ha partecipato anche l’America, dando un enorme contributo di sangue, ma che comunque non sono state combattute sul suolo americano. Eccetera. Struccando la questione fino all’osso, direi che la forza della cultura USA e il fascino che esercita su di noi, hanno origine nella modalità principale con la quale quella stessa cultura viene trasmessa e propagata: il cinema e la tv. La cultura americana è essenzialmente audio-visiva ed essenzialmente popolare: immagini, parole dette e cantate, musica. (Non si può sempre dire lo stesso di quella inglese o francese. La cultura francese, per esempio, ha un aspetto importante che riguarda gli odori e i sapori, il cibo. Quella tedesca, per esempio, mi sembra quasi esclusivamente verbo-uditiva: fiumi di parole scritte e oceani de musica). Il successo della cultura americana presso le masse europee è dovuto in primo luogo alla popolarità del mezzo di comunicazione su cui viaggia e ha viaggiato in questi ultimi 50 anni: cinema e tv. In secondo luogo è dovuto all’essenzialità dei temi trattati e alla semplicità delle ricette ideologiche propalate. In terzo luogo, non meno importante, la cultura americana è di tipo narrativo. Tutto o quasi viene trasmesso con modalità narrative. Ogni messaggio è filtrato dalla fiction e come tale è più acuminato: salta l’intelligenza, tocca direttamente le emozioni e si installa sotto le nostre coscienze come un virus che produca principalmente la tossina del consenso. Anche i più accorti e i meglio difesi tra noi, anche quelli completamente pervasi di ideologia anti-capitalistica, sono stati profondamente toccati dall’America e dal suo mito. Tutti sappiamo quanto sia difficile resistere alle immagini e alla musica e all’efficacia diretta del cinema e dei media americani. La loro capacità di perforare qualsiasi apparato difensivo, per quanto solido sia, è pari solo all’essenzialità coinvolgente, quasi commovente del messaggio che porta con sé: “siamo noi i responsabili della nostra felicità”. Roba così, insomma. L’esistenza è problema individuale, dice l’America. È conflitto. È perdere o vincere. Non è contemplato il pareggio, al quale punta invece la maggior parte di noi europei. Gli americani sono solidali solo nello stabilire e soprattutto nel difendere le regole della lotta: poche e essenziali. Il resto è tensione e azione, dunque, a loro modo di vedere, vita. L’Europa sembra tendenzialmente solidale nel consentire a chi vuol pareggiare la partita con la vita - a chi rinuncia a vincere, ma non vuole perdere tutto -, ma anche agli sconfitti, di vivere lo stesso dignitosamente. Ambedue le impostazioni hanno un prezzo. Ma mentre l’America sostiene, con l’energia e l’efficacia di ogni mezzo narrativo a sua disposizione, la validità del suo modello di vita, l’Europa sembra invece subirsi, sembra ormai vergognarsi di sé stessa, sembra così abbagliata dall’America dal dimenticare persino la sua storia. Perché? La risposta l’ha data Wenders: perché gli USA hanno avuto la forza - e ce l’hanno ancora - per operare una colonizzazione dell’incoscio dell’intero pianeta, Cina compresa. L’europa questa forza non ce l’ha più da tempo. Soprattutto per due motivi. Il primo è la sua debolezza mediatica. Il secondo, forse più importante, è una classe di intellettuali – quella che di fatto costruisce le narrazioni - che si arrovella e si tormenta da secoli nel dubbio e nel senso di colpa, nelle tentazioni di autodistruzione. Che non crede a nulla di positivo & vitale e che non ha più nulla di importante ed essenziale da trasmettere a nessuno (in qualsiasi luogo della terra si trovi), men che meno modelli di esistenza o procedimenti per raggiungere la felicità. L’Europa non crede nella felicità, crede nella sicurezza. Guardiamo la letteratura. Il Novecento europeo è una foresta di disincanto e di dubbi. L’azione vi è quasi assente e quando è presente è il più delle volte gratuita. L’esistenza è rappresentata come un mistero doloroso, illuminata da istanti enigmatici di rivelazione. La società vi è rappresentata come un complicato sistema di dominanze e asservimenti e sfruttamento ipocrisie e ferocia congelata. Ogni valore etico religioso è ormai relativizzato in una secolarizzazione quasi completa. Lo stesso principio di narrazione (come rappresentazione e analisi della realtà) è messo in dubbio, contestato alla radice, nella consapevolezza che vi si celi una truffa e che in fondo tutto quello che c’era da narrare sia stato già narrato. Come può, una cultura giunta a questo stadio del disincanto e del disprezzo di sé, competere con quella americana, così piena di certezze e di (apparente?) gioia di vivere? Così intimamente convinta di sé? Così “semplice”?

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