lunedì 7 marzo 2005

Alexanderplatz

Questa estate mentre sedevo in Alexanderplatz, nel vento vellutato di Berlino, notavo che la ricostruzione comunista della Germania Est, nel suo inseguire tardivamente il modernismo occidentale – che pure agli esordi del Novecento apparteneva di diritto alla cultura socialista -, produsse risultati talmente desolanti da volgere al metafisico, così che alla fine riusciamo persino a recuperarli esteticamente, se non altro come impagabile testimonianza storica. Il disagio che si prova mentre si siede ai tavolini de legno di un venditore di salsicce di Alex, nei pressi del triste Orologio del Mondo, è palpabile e raro, nella sua intensità: l’albergone, i grandi magazzini, gli edifici obsoleti e in disuso, lo spazio senza forma, grandissimo e quasi deserto, la fontana, la comicità involontaria della Torre della Televisione, con quella stupida palla sfaccettata che si sforza di sorprendere e riesce solo a darti fastidio. Alexanderplatz è uno spazio nato morto - probabilmente sarà presto demolito e ricostruito perché non-sollevabile, irrecuperabile, incompatibile con l’intera città - e tuttavia sottilmente poetico per il carico di desolazione e malinconia che provoca la percezione dell’esito finale del Comunismo come grande progetto di Redenzione e Riscatto. Lì ho provato per la prima volta una specie di risentimento: il Socialismo Reale, sovietico e non, col suo fallimento sordido e inequivocabile, porta la responsabilità storica di averci consegnato, si può dire legati mani e piedi e chissà per quanto tempo, nelle mani lerce dei dominanti d’Occidente. La cultura di destra ha buon gioco nell’incalzarci sul Gulag, perché ovviamente non sappiamo rispondere e non sappiamo dar conto del nostro lasciar correre degli ultimi cinquant’anni su questo e altri temi cruciali. Mentre sedevo nel fumo di salsiccia, pensavo: vedi, il Gulag era sì una cosa orribile, inaccettabile - e non era la sola cosa ripugnante dei regimi comunisti – ma se nemmeno una piazza, nemmeno questa, il Comunismo è riuscito decentemente a costruire, allora davvero meritava di cadere com’è caduto, nell’ignominia. Se Bertinotti e i suoi si professano comunisti devono allora dirci di quale Comunismo stanno parlando e se questo non sia per caso ancora quello che produsse, oltre a tutto il resto, l’Alexanderplatz di oggi, come io invece fortemente sospetto.

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