lunedì 28 marzo 2005

Ponti e pontefici

Sono contrario alla costruzione del Ponte sullo Stretto. Ci sono molti motivi per esserlo, a cominciare dalla puzza di Opera del Regime che emana, proseguendo per i costi immensi a fronte dei benefici modesti, per le priorità detenuta da altre opere più urgenti, per la tecnologia incerta e arrogante, per la Mafia che già si lecca i baffi, per il vulnus immenso al paesaggio dello Stretto, eccetera. Quest’ultimo punto è importante quanto e forse più degli altri. E ciò è tanto più vero quanto più ci si allontana dal concetto generico e un po’ vuoto di “paesaggio” per introdurre nel ragionamento l’idea di Luogo, fisico, mitico e geografico, tettonico, storico, eccetera. Un’opera del genere, crea paesaggio, è essa stessa, per la sua mole, elemento e figura primaria di ogni scenario, come dimostrano i ponti di dimensioni paragonabili realizzati altrove: il Brooklyn Bridge, il Golden Gate, il Verrazzano, eccetera. Anita Seppilli pubblicò nel 1977, con Sellerio un saggio intitolato Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, mentre il saggio di Georg Simmel, Ponte e porta è anteriore a quello di molti decenni ed è famosissimo (G. Simmel, Saggi di estetica, Liviana Editrice, Padova, 1970). Quello che scriverò qui di seguito proviene essenzialmente dalla lontana lettura di questi due testi, per me fondamentali. La Seppilli ci dice che ogni entità equorea, sia essa un fiume o un stretto, fu considerata in passato un’istituzione sacra, al punto che per costruire un ponte erano necessari complessi rituali propiziatori e che la carica di sovrintendente alla manutenzione del ponte, il pontifex, era anche e soprattutto una carica religiosa. Persino il Papa, in quanto “Sommo Pontefice”, ancora se ne fregia: sommo costruttore di ponti. “Ogni discontinuo della terra, (...), è carico di sacralità” (pag. 220), eccetera. Ogni azione che abbia come obbiettivo l’annullamento del discontinuo, è virtualmente empia. Il saggio di Simmel condensa in pochissime pagine un ragionamento serrato e molto fecondo, di cui cito soltanto: “Il ponte diventa un valore estetico, quando esso porta a compimento l’unione del separato non solo nella effettualità e per la soddisfazione di fini pratici, ma la rende anche immediatamente visibile”, (pag. 4). Dunque un ponte fonda la sua estetica per rapporto alle due sponde tra le quali è costruito, completa e integra il paesaggio, misurandolo. Ma ciò può accadere solo se lo spazio che separa le due rive ha dimensioni e caratteristiche tali da farcele percepire come “separate”, altrimenti il ponte – come dimostra per esempio il Brooklyn Bridge – si pone esso stesso come oggetto geografico terzo, assume dimensioni quasi geologiche e le due sponde, già troppo lontane, sembrano esistere solo in funzione del ponte. Il Ponte sullo Stretto non unisce ciò che percepiamo come separato, ma lo aggioga, lo cancella, riducendolo a pretesto per la propria soverchiante esistenza. E fa questo ad un luogo sacrale, carico di potente energia estetica e mitica, le cui sponde non dovrebbero essere viste come separate, ma come “una fuori dell’altra” cioè come i margini di due mondi diversi che si fronteggiano dai lati opposti di un meraviglioso, azzurro, braccio di mare. La profanazione e il “sacrilegio” implicita in ogni ponte - e forse in ogni opera che modifichi i dati geografici del mondo, così come l’abbiamo trovato - viene compensata non solo dall’utilitas dell’opera, ma anche dalla venustas insita nel disvelamento della separatezza delle due sponde e nella loro ri-unificazione. Ma le sponde dello Stretto di Messina non sono “separate” dall’acqua, sono parte integrante di quel mare, ne costituiscono i limiti. Quella non è terra attraversata e divisa dall’acqua, si tratta invece di due diverse entità geografiche che si fronteggiano. Il Ponte costituirà la profanazione dello Stretto, unirà due mondi diversi e lontani tra loro, annullando qualsiasi fatica nel passaggio dall’uno all’altro. Con la sua mole ne ucciderà non solo l’autonomia fisica e la singolarità mitica, ma anche l’unicità estetica. Una cultura insediata, che non sia rozza e terminale come la nostra, dovrebbe saper riconoscere e rispettare le propri istituzioni geografiche.

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