giovedì 24 marzo 2005

Sunday at the Village Vanguard

Da quando ho una macchina nuova, con un lettore CD che si sente discretamente, ho ripreso ad ascoltare a rotazione tutti i miei dischi di musica jazz. L’abitacolo dell’auto è il posto migliore per certi ascolti, una specie di capsula di isolamento mistico, assorto e quasi catatonico. Quando piove vi sono costretto e relegato per quasi un’ora e mezza al giorno e non posso fare altro che guardare la strada, mentre il suono mi avvolge completamente, senza riverberi, né distrazioni. Unico eventuale neo, la necessità di tenere abbastanza alti i bassi, per prevalere sul rumore del motore, ma sentire la cassa toracica che vibra assieme al contrabbasso di Jimmy Garrison, o ai colpi secchi di Joe Morello, è un piacere nel piacere. Nei giorni scorsi ho messo su più volte Sunday at the Village Vanguard, del trio di Bill Evans, un disco registrato dal vivo il 25 giugno del 1961. Astrazione, pienezza ed eleganza assolute, linguaggio pienamente maturo, non ostante la data così acerba. Penso che il jazz sia la cosa più bella, strana, straordinaria, inaspettata, enigmatica e moderna (cioè giusta nel tempo) che sia stata prodotta dal Novecento. Nella sua seconda metà del ‘900, intendo, cioè da Charlie Parker in poi. Dai secondi anni Quaranta sino alla prima metà degli anni Settanta, per circa trent’anni, questa musica ha compiuto una traiettoria rapidissima e sfrenata consumando in una vampata interi codici, linguaggi, modalità espressive e alla fine auto-distruggendosi per troppo furore e smania di superamento. La prima, e forse unica, forma d’arte di origine e sviluppo non-borghesi, e, quasi per statuto, totalmente anti-intellettualistica, eppure in molti casi raffinata sino all’estenuazione, difficile da capire, da cogliere, e ardua da godere. Non-borghese non significa non frequentata da borghesi, significa estranea, non solo a quel mondo, ma a quel modo di pensare l’arte. Il jazz rifiuta di concepire il prodotto estetico come una costruzione dalla struttura meditata e sceglie l’inedita strada dell’improvvisazione all’impronta, basata però su una disciplina e un esercizio ferrei. Notte dopo notte, anno dopo anno, un gruppo di uomini, profondamente appassionati e tecnicamente inarrivabili, ha sparso nell’aria - diresti che ha elargito e gettato via - una musica dai momenti irrepetibili e mai più ripetuti: chi c’era, c’era e il resto, incisioni discografiche a parte, è oblio. Credo che la musica jazz incarni, molto più esattamente e pienamente di qualsiasi altra forma d’arte e di musica, il vero spirito del Novecento, quel genius loci temporale irripetibile, che nel momento del suo definirsi (formarsi?) era già diventato impalpabile e sfuggente e, fuori del jazz, fu colto solo da quelli che ne furono davvero toccati, come Mark Rothko, per dire, forse Jackson Pollock e pochi altri. Ciò che vedi, o ascolti, è il prodotto di un accadimento, e accade ora. Al di là dell’istante in cui l’evento si produce, c’è il nulla, se non la preparazione all’evento e la traccia che ne rimane nella memoria, o sulla tela, o incisa nel vinile. Il gesto dandy della non-curanza nello spreco, nella profusione di tecnica e talento per soli pochi istanti di intensa espressività. In quel disco dal vivo di Evans, che non esito a definire meraviglioso, si sentono voci in sottofondo e i battimani provenienti da non più di una quindicina di spettatori: tutto molto casuale, occasionale e rilassato: poca gente, pochi soldi, una domenica sera dei primissimi anni Sessanta, una musica ancora tutta da scoprire eppure già completamente padrona dei suoi mezzi e molto vicina al raggiungimento dei suoi fini. Ancora oggi, quando ascolto Coltrane, sempre in macchina, resto stupefatto. E credo capiti a molti. Il secondo pezzo dell’album Crescent, del 1964, inciso col quartetto storico (Garrison, Jones, Tyner), Wise one, è semplicemente stupefacente. Altri musicisti ci avrebbero costruito sopra una carriera, o quantomeno si sarebbero soffermati di più su certe acquisizioni e scoperte. Invece il disco successivo di Coltrane fu A love supreme, che era già altrove. Se il trio di Evans avesse suonato nello stesso identico modo che nel ’61, ieri sera in un locale di, metti, Roma, forse sarebbe stato lo stesso assolutamente moderno.

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