mercoledì 13 aprile 2005

I padroni del tempo e dello spazio

Ritorno su un tema che, lo ammetto, un po’ mi ossessiona. Oggi, verso le otto e mezza, li ho visti ancora e come sempre ne ero affascinato. Sul ponte bianco, in questa luce mattutina già violenta, camminavano in tre, due uomini e una donna, nell’aria ancora fredda lungo la pista ciclabile. Gli uomini, vecchi e barbuti, indossavano lunghi lerci cappotti e trascinavano ciascuno una specie di carrello vuoto. La donna anch’essa non giovane, magrissima e mal messa, parlava tranquilla dicendo chissà cosa agli altri due.
Più in là immobile un altro uomo, appoggiato al parapetto, dava le spalle al fiume di automobili e sembrava guardare assorto in direzione dei Colli, dove le nuvole erano in fuga prospettica verso est. Sul viadotto invece scorreva un flusso nervoso di gente impegnata nella solita biblica mobilitazione mattutina di massa, quando ci buttiamo in strada tutti nello stesso momento, sgomitando per arrivare in tempo. Ogni varco che si apriva nella corrente compatta di automobili in cammino veniva prontamente riempito dal primo veicolo che riusciva ad occuparlo, perché lì, al mattino, non si tollera alcun vuoto nella continuità del metallo in movimento. Il viadotto corre alto su un intervallo urbano, una zona incerta prima che la città ricominci di nuovo, ed è proprio qui sopra che spesso li vedi camminare o sostare. Sono gli abitanti di queste terre basse, della non-città, degli interstizi, dei canneti. Qui sotto, oltre al fiume e alle aree golenali, ci sono capannoni e baracche, mucchi di auto sfasciate e rifiuti, orti perfino, rampe e raccordi autostradali e chissà cos’altro. La vegetazione spontanea e le erbacce sono in rigoglio primaverile, una giungla percorsa da viottoli e piste, si direbbe. E immagino che in questo territorio ampio, quasi selvaggio, che chiamo l’Intervallo, non valgano le leggi e le norme della città, cui noi siamo abituati, ma altre leggi non scritte, altre usanze più adatte a questi umani incuranti, così diversi, sporchi e lenti, ma padroni del tempo e dello spazio. Credo che questi esseri umani, voglio dire propriamente quelli che vivono qui, nascosti da qualche parte sotto i viadotti, non siano propriamente dei “senza casa”, e non credo si possano liquidare come “barboni”. O almeno quei tre di stamattina, non li avrei definiti così. Sembravano piuttosto persone ritiratesi dalla giostra e dalle estensioni urbanizzate della civiltà contemporanea e rifugiatisi qui, in questi territori semi-selvaggi, a vivere un’esistenza diversa, non necessariamente infelice o depressa, ma sicuramente primordiale. Immagino che tutto quello che noi consideriamo artificiale e civile, vale a dire afferente la civitas -, la città come comunità storica insediata, i manufatti edilizi e gli oggetti, grandi e piccoli, che segnano il nostro distacco dallo “stato di natura” -, loro, invece, li vedano ancora come mute entità geografiche, non più da abitare come interni, ma da usare come supporto per una vita, la loro, tutta esterna. Credo che questo tipo di persone siano l’unico davvero vicino allo stato di natura, dove il tuo giaciglio e la tua casa sono provvisori, dove ti dai da fare per trovare cibo e abiti, calore e asciutto, dove sostanzialmente decidi, istante per istante, della tua vita per rapporto al mutare dell’ambiente, non sempre amichevole. Vedo la loro sporcizia come una scelta strategica, una forma di difesa e una garanzia di isolamento, un diaframma di separazione dalla civitas, che usano come risorsa, ma che sommamente odiano e con la quale non vogliono avere nulla a che fare. Nello stato di natura, se fai paura, schifo o ribrezzo, sei al sicuro. L’Uomo Nero della Rampa di Raccordo, il robinson di cui parlavo qualche giorno fa’, mi fa proprio questo effetto anche da lontano, e immagino che sarebbe il padrone di questi territori se non avesse lo sguardo vuoto e perso da matto.

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