lunedì 11 aprile 2005

La porta automatica

Eravamo scesi a mangiare verso le due, al solito posto. C’eravamo fermati dal giornalaio e lui aveva comprato il suo giornale, io il mio. Morivo di fame, come al solito e sapevo che mi sarei ingozzato, poi avrei avuto sonno e sete. Sapevo che ritornato allo studio sarei sprofondato in quella poltronaccia di pelle sgangherata e forse mi sarei appisolato. Pessime abitudini. Trovammo un tavolo libero e io mi offrii di ordinare per tutti e due, mentre lui si sedeva per occuparne i posti.
Tornai con un vassoio colmo di cibo e lo trovai col giornale aperto sul tavolo, lo sguardo fisso, immobile, pallido. Gli dissi di togliere quel giornale perché dovevo appoggiare il vassoio e lui mi rispose: li ho visti! Gli risposi: leva sto giornale, non vedi che non so dove mettere la roba? Lui tolse il giornale meccanicamente con lo sguardo ancora fisso davanti a sé. Era come se mi fissasse il maglione al centro del petto, così a mia volta abbassai il capo per controllare che non ci fossero macchie e sbrodolamenti. Ma tutto era a posto e pulito. Lui ripeté: li ho visti! - Ma chi? – gli chiesi. - Quelli che sono morti, li ho visti lì tutti in fila... erano vivi, come me. - Ma che dici? - Guarda -, mi disse, - guarda qui. Prese il giornale, me lo porse e mi indicò un titolo di prima pagina. Un aereo di linea era precipitato la notte prima tra Alghero e Cagliari. Si era schiantato non si sa come, in montagna. Nessuno s’era salvato e c’era la solita foto di rottami informi, di quelle foto che ti dicono che un aereo può ridursi in un istante ad un mucchio sminuzzato e informe di pattume. - Sono morti tutti -, disse lui – ad Alghero c’ero anch’io l’altra sera. Facevo il checkin per Roma. A fianco c’era la fila dell’ultimo volo per Cagliari. Conosco bene quell’aeroporto, lo sai. Ci vado quasi tutte le settimane. Erano lì, ignari, che si guardavano intorno distratti, stanchi. Quasi tutti uomini, gente in viaggio per lavoro. Qualcuno che tornava a casa. Sai quando sei in fila all’aeroporto e non hai altro da fare che aspettare il tuo turno e ti fissi sui particolari di ciò che vedi. Ci torni e ci ritorni con lo sguardo, valuti, cerchi di farti un’idea della gente che ti sta intorno, come è vestita, il tipo di bagaglio, l’età, gli oggetti, i giornali piegati nelle tasche. Era gente come me, facevano la fila per la carta d’imbarco, tranquilli. Non c’era molta luce, forse si era rotta una lampada, il banco del checkin era quasi al buio, con l’impiegata che aveva l’aria di chi non vede l’ora di andarsene a casa. Saranno state le nove, nove e mezza. La fila si esaurì presto, il volo è semivuoto, pensai. Sparirono dietro quella porta automatica, coi vetri smerigliati. Poco più tardi mentre aspettavo di imbarcarmi udii il tipico rombo di un jet in decollo. Erano loro. Erano già morti, si può dire... Parlammo ancora del disastro, per tutto il pranzo. Io ero impressionato, lui agghiacciato. Mangiò pochissimo. Continuava a dire: - Quella porta a vetri. Quello è stato il passo fatale, varcare quella porta. È da quel momento che hanno cominciato a morire. Chissà cosa hanno provato, chissà se si sono accorti, se hanno avuto il tempo per la paura, se hanno sofferto. Quella porta automatica li ha tagliati fuori dalla vita. Varcata quella, non potevano fare più niente per salvarsi.

Nessun commento:

Posta un commento