martedì 28 giugno 2005

Happy hour

Viviamo la città secondo due modalità fondamentali -, stava dicendo un uomo corpulento, con la barba. Sembrava parlasse con l’unico scopo di non-tacere e aveva una camicia verde, una cravatta rossa, allentata, una giacca di lino nero, pantaloni bianchi, sempre di lino e sandali fratini di Antinoo, con la suola di carrarmato.
Ma l’altro – era molto più giovane e aveva in mano un calice di vino bianco ghiacciato che faceva invidia - lo ascoltava con attenzione, invece.
Due modalità: quella spaziale e quella temporale. Semplice vero? Sembra una banalità, ma non lo è. Più che di città dovrei parlare di metropoli, perché è nella metropoli che vale questo discorso, soprattutto.

Il sole era molto lontano dal tramontare, ma l’ombra del grande Palazzo era già lunga e investiva in pieno i tavoli all’aperto dell’enoteca. Se il rumore della città non l’avesse sopraffatto, si sarebbe udito il rumore dell’acqua delle due fontane cinquecentesche.
Non faceva ancora fresco, ma una brezza tipica di quella stagione, di quell’ora e di quel punto di quella piazza, consentiva di respirare.
L’aria saliva sù, lungo il fianco del Palazzo, proveniente da ovest, dove c’era il fiume e mi accarezzava la nuca mentre tendevo l’orecchio verso il tavolo vicino. Le sette, sette e mezza, di sera: l’ora degli appagati, di quelli che hanno smesso di lavorare da poco e si rilassano.
Adesso ti spiego meglio -, diceva il corpulento - quando usciamo al mattino prendiamo l’auto, oppure un mezzo pubblico e percorriamo la distanza che ci separa dal luogo di lavoro. Il tragitto richiede un certo tempo e facciamo di tutto per ridurlo.
Al mattino, ma anche alla sera, non ce ne frega un cazzo della città che c’è tra noi e il luogo che vogliamo raggiungere, anzi: se potessimo useremmo il teletrasporto, quello di Star Trek, sai. Nella modalità temporale la città fisica è solo un ostacolo, un fastidio: fa attrito, ci rallenta. In quel momento la odiamo.
Così come odiamo tutti quelli che in quel momento stanno facendo la stessa cosa, cioè cercano di muoversi, di trasferire il loro corpo da un qualsiasi punto A a un qualsiasi punto B, metti. Seguitava a parlare sempre più velocemente e forbito, man mano che la sua lingua si scioglieva per effetto del vino. Alzava la voce e potevo sentirlo chiaramente. Il suo interlocutore, forse un suo allievo, taceva e ascoltava, annuendo con la testa, cercando di assumere un’aria d’intesa. Si vedeva che tra loro c'era un rapporto asimmetrico, che l'uno era in soggezione dell’altro e che non aveva intenzione di obbiettare alcunché.
Il professore - non poteva essere altro che un professore di qualcosa - passò a descrivere la modalità spaziale. Ma appena scesi dalla macchina, dall’autobus, dalla metro, eccetera, eccoci nella modalità spaziale. Nel senso che a questo punto non ci interessa più il tempo, ma la qualità del luogo urbano che abbiamo raggiunto: il comfort, l’abitabilità e la bellezza, perfino.
E ci piace che questa qualità ci accompagni anche all’interno delle stanze, grandi o piccole non interessa, dove svolgiamo il lavoro.
Lì resteremo gran parte della giornata: il tempo di permanenza è dato, anzi prescritto per contratto, non è negoziabile, né accorciabile. Otto ore: quelle sono, minuto più, minuto meno.
Passato questo tempo, che definirei di sistema - seguitava il professore, togliendosi la giacca - rieccoci in modalità temporale per il viaggio di ritorno, finito il quale si re-innesca l’altra modalità, quella spaziale, che consiste questa volta nell’abitare la propria casa e il quartiere dove si trova.
Dunque, secondo te, qual è la ricetta – starei per dire lo slogan - della buona urbanistica? Il giovane non si aspettava di essere interrogato e subito vidi che era a disagio. Scosse leggermente la testa e disse a voce bassa: mmm... qual è? Il professore soddisfatto, accaldato, rispose con la fronte madida di sudore. La cosa più banale del mondo, ma ce la scordiamo spesso: accorciare il tempo e migliorare lo spazio.

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