martedì 7 giugno 2005

Our architect

Visto al cine My architect: a son's journey di Nathaniel Kahn (USA, 2003). Non è un film di fiction, ma dentro c’è fiction come in tutti i documentari, anzi come in ogni cosa. Nathaniel Kahn, più che trentenne, è figlio di Louis Kahn, grande architetto americano, trovato morto poco prima del giorno di Natale del 1974, in una toilette della Penn Station a New York. Aveva 72 anni. Kahn, come si è scoperto dopo la sua morte, aveva tre famiglie (e 3 figli da tre donne diverse), ma una sola moglie, e si divideva tra tutt’e tre, in segreto. La cosa sorprendente di questo seduttore è che era un uomo alto un metro e sessantacinque, brutto, col viso sfigurato da una bruciatura infantile. Insomma una storia umana, intellettuale, artistica, professionale, molto complessa, di cui Nathaniel viene a conoscenza gradualmente e solo molto tempo dopo la morte del padre. Un padre che non c’era mai, che lui conosceva poco e che scomparve quando era un ragazzino. Nel film, Nathaniel si mette sulle tracce delle architetture paterne, intervista personaggi anche molto famosi che lo conobbero, parla di lui con la madre e le sue sorelle di altre madri. Scopre innanzi tutto che il padre aveva vissuto nella fatica, nella poesia e nella menzogna. Nathaniel si divide in due, tra risentimento per il modo in cui Louis aveva trattato lui, sua madre e le altre donne della sua vita, e l’ammirazione per l’uomo e l’artista, massacrato dal lavoro, che gestiva senza badare molto al profitto e in modo inefficiente, tanto da lasciare, alla sua morte, un buco di mezzo milione di dollari. Incredibile, se si pensa al personaggio che era e all’influenza che esercitò in tutto il mondo, mentre era in vita. Louis Kahn, semplicemente, ruppe la gabbia in cui era finita l’architettura del Moderno e indicò una strada per sfuggire all’avvitamento e all’isterilimento dei suoi linguaggi. Da studenti ne imparavamo a memoria i progetti, le soluzioni quasi impensabili, ne studiavamo il procedimento concettuale di cui si serviva per la costruzione del progetto, cercavamo di interpretarne i rari scritti, di solito oscuri, ermetici. Infine lo imitavamo, tutti lo imitavano irresistibilmente. Ogni suo disegno, ogni schizzo di viaggio, divenne famoso nel mondo. alcuni di questi fogli di carta divennero mitici, come quello di Piazza del Campo a Siena, o quello preso mi pare a Karnak, in Egitto. Si copiava persino il suo modo di fare i plastici di studio, in cartoncino grigio. Quest’uomo idolatrato in realtà aveva una vita privata che era un casino, era pieno di debiti, dormiva nel suo studio, sul divano, qualche volta sul tappeto. Incapace costituzionalmente di compromessi, mandava in malora incarichi invidiabili solo perché non si prendeva col committente. Niente di più lontano dalla figura del grande professionista internazionale che ci eravamo fatta. Nathaniel intervista, Philip Johnson che dice di lui: “Le Corbusier era meschino, Mies Van Der Rohe era intrattabile, ma Lou. Lou sì che era un uomo!”. Ma i veri personaggi del film sono le architetture e, soprattutto, le donne di Kahn, cui l’autore dà molto spazio, proprio per tentare di spiegarsi il mistero di quella generosità, del loro legame, mai reciso, mai diventato risentimento oppure odio, col Maestro. Eccetera. L’ultima tappa dell’itinerario è in Bangladesh a Dacca, dove Kahn costruì, lui architetto di origini ebraiche, lo straordinario complesso del Parlamento di una nazione islamica. Lì, dentro quell’edificio, parla, con le lacrime agli occhi, l’architetto bangla Shamsul Wares e dice più o meno questo: “Lou ci diede questo edificio e ci insegnò cos’è la democrazia”. Sulle prime ho provato disagio, mi sembrava un’enfasi fuori posto. Poi credo di aver capito: è il concetto stesso di assemblea democratica che si trova espresso, con la massima limpidezza, in quello scarno spazio ottagonale e in tutto l’edificio, dove aleggia una specie di poesia mistica, enigmatica. Tutto il complesso “serve” lo spazio assembleare, quasi sottomettendosi alla funzione prima, fortemente simbolica, che vi si svolge: pura teoria kahniana messa in pratica. Eccetera. Khan ripeteva spesso ai suoi studenti di Yale: dovete prima di tutto chiedervi ciò che uno spazio “vuole essere”. E noi seri, nei nostri studi, a ripeterci: cosa (cazzo) questo spazio vuole essere?

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