domenica 21 febbraio 2010

Appunti su Hopper (1882-1967)

Sorprende che in un periodo (quello a cavallo tra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento) così ricco di fermenti artistici, in un’epoca in cui molti artisti stavano cambiando strada rispetto ai loro input di formazione, la tecnica e la ricerca di Hopper siano rimaste così stabili. Stabilità che, al di là dei cambiamenti imposti dal suo percorso poetico, resterà tale per tutta la vita dell’artista: nella Parigi dei primi anni Venti il suo universo tecnico e lirico sembra già definito. Per certi versi Hopper sembra legato per sempre agli anni della sua formazione, cioè alla scuola d’arte e di illustrazione di New York che frequentò per qualche anno e che costituisce il nucleo solido del suo apprendistato, quello che ne detrmina lo stile, fino alla successiva influenza dell’impressionismo e del post-impressionismo. Insomma sembra sia restato per tutta la vita un illustratore: non vedi particolari ricerche tecniche (usa per tutta la vita lo stesso tipo di Conté crayon, producendo lo stesso tratto), vedi solo pittura e gusto-di-pittura, una pennellata vigorosa, una tavolozza aperta ad ogni declinazione cromatica, senza quelle esclusioni periodiche che sono così frequenti negli artisti di quegli anni. Il suo intero cammino poetico non comporta sostanziali modificazioni tecniche. Hopper è interessato ovviamente alla luce, ma solo, o principalmente, come rivelatrice di Volume e di Colore. Gli oggetti, le case (le case viste dall’interno e dall’esterno saranno sempre suo soggetto preferito), le cose, le persone esistono di per sé e vengono rivelate dalla luce. inoltre è sua propria una sensibilità speciale per il basico rapporto (esistenziale?) esterno-interno, sul quale si fondano molti dei suoi lavori migliori. Se gli impressionisti, diciamo Monet, dipingono l’aria che si interpone tra occhio e soggetto, se loro sono interessati soprattutto a problemi pittorici di resa della percezione e di fatto mettono in dubbio la realtà oggettiva delle cose, lui, pur sentendone fortemente l’influenza, resta ancorato ad un’idea empirica di realtà oggettiva. È l’essenza del suo essere americano che glielo impone? E non è singolare il fatto che da questa aderenza alla realtà alla fine si produca la pittura forse più metafisica degli Stati Uniti d’America? Solo con gli elementi della realtà, attraverso una forte et quasi sempre magistrale sintesi volumetrica, si costruisce il mondo lirico di Hopper. Rapporto luce-ombra, rapporto volume-colore e, in più, una sintesi pervicace nella resa dei dettagli. Nella sua pittura la teoria delle ombre ricopre un ruolo fondamentale: difficilmente dimentica l’ombra propria e l’ombra portata di un oggetto, di una casa, di una persona, di un elemento di paesaggio. Ma nel trattare le ombre risente sia della lezione impressionista sia delle nozioni accademiche apprese a scuola. L’ombra portata è colore che si fredda (l’ombra blu impressionista). L’ombra propria risente dei riflessi delle superfici illuminate circostanti. E poi c'è quella piena luce di sole che si stampa decisa sulla superficie delle oggetti, sulle pareti delle stanze, i tetti delle case, la pelle delle persone. Forma umana, forma architettonica e forma del paesaggio sono pur sempre manifestazioni della tendenza della materia a costituirsi in volume. Le persone, la stessa moglie Jo, che gli fa da modella in molti lavori, sono soprattutto volumi-sotto-la-luce. Nessun privilegio per l’umano rispetto alle altre manifestazioni del reale, nessuna particolare cura nel dettaglio fisignomico, nessuna resa delle espressioni nei volti. Anzi, i volti sono quasi sempre nascosti o ritratti da lontano e, come nelle vecchie fotografie, si leggono per contrasti netti di luce ed ombra: l’ombra portata dalla arcate sopracciliari sugli occhi, dal naso sul labbro, dal mento sul collo, eccetera. Fin qui sulla resa pittorica di Hopper, che mi interessa molto. Resa che non è scindibile dai suoi risultati poetici e che tuttavia non ne costituisce la sostanza principale. Forse questa risiede invece nel suo sguardo, nella sua capacità di selezionare ed enucleare momenti, situazioni, porzioni e manifestazioni fisiche del reale, dove si produca la percezione di qualcosa che chiamerei Essere Nello Spazio-Tempo, che, nel caso in cui vi sia coinvolta la figura umana penso vada letto come Essere Soli Nello Spazio-Tempo e sotto la Luce. Gli alberi di Hopper somigliano a quelli di Morandi. Le bottiglie sotto la luce di Morandi mi vengono in mente osservando Hopper. Mi viene in mente Vermeer. E Monet, Seurat. Mi viene in mente Andrew Wyeth e prima di lui Winslow Homer, com’è ovvio, ma solo come parentele, anche se alla mostra di Chicago di due anni fa Hopper e Homer venivano posti a diretto confronto. Sorvolo sull’orrenda ri-costruzione in 3D a grandezza naturale, presente in mostra, del famoso quadro hopperiano intitolato Nigthawks. Naturalmente, come per tutti gli artisti che riscuotono un consenso di massa, esiste un kitsch hopperiano.

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