domenica 16 maggio 2010

Appunti dall'isola_6

Costa mi dice che non si può più pescare a causa di foche e delfini.
Dove sono? Laggiù, verso il Capo, ce n’è quattro o cinque.
Un tempo gli sparava.
Adesso qui c’è addirittura un ufficio proteggi-foche, anche se con i tagli dei fondi pubblici lo vedo messo male. Non c’è un ufficio per la protezione dei delfini, che evidentemente sono meno importanti delle foche, oppure non sono a rischio di estinzione, oppure qui un ufficio proteggi-delfini sarebbe inutile.
Vedo piccoli caicchi che vanno a pesca tutti i giorni, prendono poco, vendono nel villaggio.
Mi sembra un business locale e poco remunerativo.
Qui i pescatori hanno mantenuto un look tutto loro, che mi appare selvaggio et primitivo. Non so se si atteggino, ma credo di no, credo che sia uno di quei fenomeni di spontanea omologazione professionale, tipo i camionisti americani, che sono vestiti da camionisti e sempre tutti interni alla sub-cultura camionistica. Il pescatore è riconoscibile, fuma molto, parla poco, molto poco, al contrario della gente locale, che è incline alla chiacchiera. Il pescatore è stanco, o almeno lo è al mattino, quando torna dalla pesca. Ha la barba di una settimana, i capelli lunghi, scompigliati, ingrommati di sale e schiariti dal sole. Faccia abbronzata, piena di rughe precoci. Veste con magliette a righe, tutte macchiate di sudore e di sale, di grasso e di pesce. Il pescatore non ha freddo quando tutti hanno freddo (da vecchio pagherà questo non avere freddo, pagherà il vento nelle orecchie, l’acqua e l’umidità assorbita per una vita). Indossa pantalonacci de cotone sformato, anchessi sporchi e salati, con scaglie di pesce attaccate qui e là alla stoffa, ai piedi ciabatte di plastica o scarpe di gomma, senza calzini. Ha una pancia precoce da bevitore di birra, da mangiatore gagliardo. Quando non è a farsi il culo in barca – ogni mattina c’è da pulire qualche chilometro di reti, mondarle, rassettare e lavare la barca, eventualmente riparare gli strappi (delfini et foche strappano la rete) – lo vedi al caffè, con una tazza di nescafè bollente che si guarda in giro. I pescatori lavorano molte ore, sia al mattino che alla sera, quando escono per la gettata e addosso hanno qualcosa di più pesante, un maglione, un copricapo de lana. Stanno progressivamente uccidendo tutto ciò che ancora sopravvive nel mare di queste parti e non sto parlando di pesca d’altura metti con le spadare. Qui al massimo tramaglio o palamito. Ora sono le dodici e mezza e li vedo qui davanti che ancora trafficano sulle barche. Sono salpati verso le sei del mattino. Verso le otto ho visto tornare anche la barca di Costa. Il moletto si è subito riempito di gatti, che evidentemente riconoscono la sua barchetta e sanno che lui qualche pescetto glielo butta. Diceva delle foche, ieri. Io dico che non c’è più pesce. Lui già anni fa diceva Mare morto! Oggi dà la colpa alle foche, ma è solo perché non gli va di pensare al mare di oggi, che non ha niente a che fare con quello di trenta o quarant’anni fa, che se non è morto ci manca poco. Ha più di ottant’anni, si rassegna ai cambiamenti, ma non ne vuole sapere troppo. Quel mare lì ce lo ricordiamo tutt’e due, sappiamo com’era. Sappiamo cos’era. Per anni e anni ho ammirato i pescatori di queste isole. Oggi non so, mi è passata anche questa. Non ammiro più nessuno, da nessuna parte. Ma è solo per stanchezza, o per scarsità di coinvolgimento, non perché non ci sia rimasto nessuno da ammirare. Intanto sui caicchi ormeggiati qui di fronte si seguita a trafficare. E ormai sono le due del pomeriggio.

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