mercoledì 23 giugno 2010

Confesso che ho dormito

Ho dormito a lungo e appena ho potuto. Ho dormito ben oltre il fabbisogno fisico. Ho dormito per non vivere certi momenti. E ho dormito a causa di certi momenti. Spesso ho usato il sonno come risarcimento delle botte subite dalla vita. Un risarcimento passivo, autoprodotto, il secreto di misteriose sostanze attivate da meno misteriose istanze: “via di qui, via di qui, ora, per favore…”. Sono un esperto di sonno-fuga, voglio dire che col tempo sono diventato uno sleepmaster. Cioè uno che è bravo a girarsi dall’altra parte, di fianco, spalle alla luce e al rumore, possibilmente una coperta o un sacco a pelo sulle spalle, ben tirato su sulla nuca, e che cade sapientemente addormentato.

E il tutto sarebbe perfetto se non esistessero i sogni, la maledizione del dormiente e delle sua ipnosi, della sua sacra incoscienza. I sogni sono i parassiti che si insinuano tra le valve del guscio del sonno e ne attaccano all’interno la materia informe indifesa palpitante annidata nel fondo della mente, pungendola arrossandola irritandola infettandola con immagini deformate di vita vissuta immaginata ipotizzata riscritta reinventata, oppure mai a poi mai vista prima. Che schifo. Ma i sogni non bastano da soli a rovinarci del tutto il sonno che resta l’unico indiscusso Maalox della mente. Ho dormito ovunque. Sul ponte di molte navi e molte volte sul ponte di una nave sola, che divenne ben presto un libro aperto, per me. Mi accomodai una notte su una panca comodissima e presi sonno e a una certa ora venne un marinaio e mi svegliò e mi disse di alzarmi perché quello era il posto dove l’estate dormiva il capitano. E infatti poco dopo lo vidi arrivare, corpulento e ciabattante, e sdraiarsi sulla schiena e fumare a guardarsi le stelle sulla sua nave. Ho dormito sui moli aspettando le navi. Nelle stazioni in attesa di treni. Nelle sale d’imbarco degli aeroporti. E sui treni e sugli aerei. Ti svegli su un vagone letto e all’improvviso oltre il vetro vedi il blu intenso dello Stretto di Messina e aprendo il finestrino senti quell’aria più dolce e quasi profumata e pensi che il Sud è diverso perché è davvero un altro mondo. Sul tetto di una cisterna di raccolta dell’acqua piovana il 29 di agosto di molti anni fa, per esempio. Era cosparsa di minuscoli sassolini e dormii sotto una luna iperbolica dentro un vento forte e benefico, chiuso nel mio sacco. Per poi al mattino svegliarmi sotto al sole con la bocca arsa, nel puzzo violento del piscio di una decina di asini che avevano passato la notte silenziosi lì a pochi passi. Sulle spiagge, nelle grotte presso il mare, all’ombra di una tamerice o di una rupe o di una tenda improvvisata, oppure al sole, in pieno sole. Nelle cuccette delle barche, faticosamente, tra un turno di guardia e l’altro. Oppure nel silenzio di un qualche pomeriggio ormeggiati in rada ad ascoltare lo sciacquìo sullo scafo. Nel puzzo dei posti di guardia delle caserme, vestito, con stivali et giberne, carne da sugo per frotte di quelle zanzare mutanti che vivono tutto l’anno per anni e anni all’interno dei posti di guardia e succhiano il sangue, generazione dopo generazione, a generazioni di militari. Su una panchina del parco centrale di Amsterdam, nel ’71… Sui banchi dell’asilo delle monache, dove si dovevano appoggiare le braccia e sulle braccia, la testa, per un sonno di un’ora crudelmente coatto, obbligatorio. Mai riuscii a dormire. Nessuno dormì mai. Nell’anno della Fuga passavo la notte in case di amici estranee e arcigne, su divani, o divani-letto o più raramente su letti-letti o sul pavimento qualche volta. Non era bello dormire così negli spazi interstiziali della città, osservando il fastidio crescente dei miei ospiti e pensando già a dove andare, a dove scappare la notte dopo. Non era bello svegliarsi in case estranee, cercando di non dare fastidio. Eppure anche allora, su quei divani, addormentarsi era una meravigliosa fuga dalla realtà: quella coperta diventava la mia casa provvisoria e io l’abitavo pienamente, come un orso in letargo abita la sua pelliccia. E per quanto possa essere bello o poetico il luogo dove ci addormentiamo, nel momento esatto in cui cerchiamo il sonno, il pensiero va al nostro letto e allo starci dentro. Ho sempre pensato che il sonno fosse l’unica cosa che rende sopportabile la vita. Cioè la possibilità di ritirarsi per un certo tempo negli appartamenti privati della mente escludendo pensiero e percezione. Ma anche ho goduto dell’andare a letto come sereno atto naturale, dell’addormentarmi, del sonno e del risveglio come un gourmet gode di un pranzo ben riuscito, articolato e correttamente dosato dall’entrée al dessert, ho goduto di lenzuola pulite, di un letto ben fatto solido e teso, con una coperta possibilmente rossa calda e non troppo pesante e di saldi cuscini di piume, così come si gode di una bella tovaglia, di stoviglie lucenti. Spero di avere sempre un letto dove rifugiarmi.

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