lunedì 19 luglio 2010

Pec, l'Uccisore

Tutte le volte che torno in campagna, cioè (non ostante ami il mare) ogni fine settimana, prendo banalmente atto della presenza attorno a noi di una stupefacente quantità et molteplicità di esseri viventi che conducono una loro esistenza, non solo ignorando completamente la nostra presenza sulla terra, ma lottando tra loro per sopravvivere come facevano milioni di anni fa. Cioè prendo atto che quella che chiamiamo civiltà riguarda solo noi umani, i cani, i gatti e forse qualche altra specie. Poi basta. Non solo, ma qualsiasi atto o movimento io compia, finisco per uccidere qualche essere vivente. Se per cenare all’aperto accendo la lampada che pende sopra il tavolo provoco l’impazzimento di una quantità di esseri volanti che non riescono più a staccarsi dalla luce, girano e rigirano sbattendo contro il metallo del paralume, finché non crollano al suolo morti per lesioni, follia, sfinimento, oppure bruciati dal calore. Se cammino davanti casa schiaccio una quantità di formiche (tipologia lenta et laboriosa, per niente invasiva, che nutro a briciole di pane) che vi si aggirano. Ma è delle uccisioni volontarie che provo un certo rimorso: - l’insetticida spruzzato sul nido di forbicette formatosi sotto il telaio della finestra provoca un impazzimento generale, le bestiacce tremano incespicano si scontrano l’una con l’altra nel tentativo di sfuggire allo spray venefico, come fosse iprite; - l’accendino che brucia il ragno zampe lunghe, mentre si sta scofanando l’ennesimo insetto dopo averlo imbozzolato delle sue bave: basta una fiammata da sotto a una certa distanza; - il ragno schiacciato sulla parete delle scale, perché troppo grosso minaccioso, nero, veloce, seguito dall’affermazione fatta a voce alta: mi spiace, o voi o noi; - lo scorpione che compare da dietro la tazza del cesso, improvviso e nero, con le chele ipertrofiche in posizione di attacco, la coda alzata, viene schiacciato sotto il sandalo e resta lì dietro a torcersi nella morte finché non torno con la scopa e lo spazzo via; - la veloce scolopendra che regolarmente troviamo caduta nel lavello, mentre raspa disperatamente le pareti di maiolica della vaschetta, finisce sotto il getto del rubinetto girevole finché non va giù per lo scarico, anche se da lì talvolta è capace di tornare e allora va schiacciata; - le case che la vespa vasaia appronta per i suoi piccoli, con tanto di rifornimento di cibo per quando le uova si schiuderanno (poveri piccoli bruchi intrappolati lì dentro vivi: vivi saranno divorati) asportate con la spatola dall’imbotto delle finestre; - il piccolo coleottero che ti si posa sulla tavola all’ora di pranzo e muore al minimo tocco che gli dai per scostarlo di lì: morte vera e non simulata, perché il giorno dopo è ancora lì, zampe all’aria. Ieri G. mi diceva che rientrando in casa a notte fonda udiva una specie di sibilo provenire, nel silenzio assoluto, dal fondo del soggiorno. Accesa la luce scopriva un’enorme mantide accroccata sul bianco del divano ed era lei ad emettere quel fischio. G. decise di lasciarla dov’era e se ne andò a dormire. Che altro potevo fare? mi ha detto. Io so cosa poteva fare: le mantidi enormi sono la mia passione, sono bellissime e lente, si possono far salire su un pezzo di giornale, se uno proprio non vuole prenderle in mano, e così gettarle all’esterno, nell’erba. Lo stesso faccio con gli scarabei neri, dal guscio bombato, che ogni tanto lentamente et faticosamente varcano la porta di casa. Questi scarabei li vedo morti molto spesso, sempre nei pressi dell’uscio, come se avessero avuto l’intenzione di chiedere aiuto prima di spirare. Non mi dilungo su uccelli et pipistrelli et cinghiali e gatti e cani, sovente randagi. E nemmeno su farfalle, vespe, bombi. Non dico delle zanzare e degli altri insetti che si nutrono del mio sangue.

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