martedì 13 luglio 2010

Riuscire a dirsi contro

Ne hanno scritto in molti. Il fatto politico più importante di questi ultimi mesi, forse di questi ultimi anni, è la vicenda della Fiat di Pomigliano, dove è stata per così dire messa una pietra sopra alla classe operaia come l’intendevamo nel Novecento. Una pietra in senso quasi letterale, perché l’effetto drammatico di schiacciamento da ricatto è del tutto evidente e ancestrale, vale a dire risalente ai primordi delle lotte operaie, quando si lottava per diritti e regole primarie. Quando il venditore di forza lavoro, subiva l’aut aut classico: o così o niente. Inutile dire che più che di condizioni di lavoro (come lo intende chi si fa le sue otto ore metti in un ufficio), si è trattato di pre-figurare condizioni esistenziali quasi estreme, in cui l’uomo viene di nuovo usato interamente come mezzo per un fine interamente produttivo, vale a dire interamente di profitto. Senza considerare la fabbrica come luogo di permanenza vitale, senza nessun margine di considerazione dell’operaio come essere umano, in un quadro produttivo che lo vede di nuovo interamente avvinghiato e con-sustanziato alla macchina produttiva: cos’altro sono i turni di otto ore con soli dieci minuti di pausa se non un conclamato ritorno all’uomo come animale da lavoro? Si è detto che sulla scena politica sarebbe «ricomparsa» la fabbrica, che – nel quadro concettuale et modellistico di una società vista ormai come «post-industriale» – tutti davano ormai per marginale, non chiedendosi evidentemente dove mai verranno costruiti, e da chi, tutti gli infiniti oggetti che riempiono la nostra vita. Sì, è ricomparsa la fabbrica, ma non la fabbrica novecentesca, non il luogo tragico e centrale dove si applicavano contemporaneamente tutte le forze, le istanze, i conflitti, le idee, i sogni, le contraddizioni di una società industriale, non come luogo di produzione, ma anche di contatto, tra le classi, non come luogo di sofferenza ma anche di quotidiana riunione & condivisione operaia. È ricomparsa solo nel senso che si è fatta vedere di nuovo, prima di inabissarsi nel mare magno dell’inferno globalizzato del lavoro, dove esistono gironi molto più profondi e sconosciuti, dove la condizione umana è ritornata allo stato di schiavitù primordiale, com’è improvvisamente emerso a Rosarno lo scorso anno. Viene allora in mente – ma solo marginalmente alla questione, solo come connessione alla domanda su cosa si possa mai fare di politicamente concreto per contrastare l’agire sempre più selvaggio del capitalismo globale – lo slogan in epigrafe all’invito per la presentazione di Alfabeta2, giovedì prossimo, «Per un intervento culturale in un paese allo sfascio», che come programma suona così ambiguo & vago (la parola “sfascio” è generica, la sento pronunciare da quando sono nato) da indurre a immaginare qualche correzione. «Per un intervento culturale contro la barbarie di ritorno», per esempio. Oppure: «Per essere manifestamente & culturalmente contro la barbarie del capitalismo globale». Oppure, ancora: «Per una presenza culturale contro lo sfruttamento e la schiavitù». Eccetera.

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