martedì 24 agosto 2010

Ambulanti insulari

L’uomo della frutta si fa il culo. Compra la merce a Rodi, la carica sul suo piccolo camion, poi carica il camion sulla nave e dopo quasi cinque ore di viaggio arriva qui, di solito in piena notte. Non so dove dorma, ma la mattina seguente piazza la bilancia sul retro del camion aperto e comincia a vendere, in piedi tra le cassette di frutta, sotto un tendone blu, che si arroventa progressivamente. L’uomo ha un’età, una pancia incredibilmente prominente, pochi denti in bocca, e non è né simpatico, né gentile, pare incattivito dalla fatica e dall’amarezza del mestiere che fa: fruttivendolo insulare ambulante. In compenso non sembra preoccupato di non vendere: qui la verdura e soprattutto la frutta, se non le porta lui non si trovano. Al suo arrivo si forma subito una coda lunga di acquirenti, comprare anche solo quattro pesche (buonissime) è uno sfinimento, con le kirie locali che sgomitano per passarti avanti. Un tempo la frutta arrivava direttamente dai frutteti dell’isola di Kos, in un grosso caicco malandato che si ormeggiava al molo piccolo (a quei tempi esisteva solo il molo piccolo) e vendeva a bordo, sotto una tenda ventosa. Per il peso maneggiavano, anche troppo velocemente, vecchie stadere di ferro, a contrappeso, come usava anche da noi fino a qualche decennio fa.* Altri ambulanti insulari battono questi lidi. L’altro giorno sono arrivati due furgoni carichi di stoffe e prodotti per la casa. Erano zingari, si vedeva dall’abbigliamento delle donne, dalle pezze che vendevano e da quelle che portavano in testa, dalla loro pelle scura, piena di rughe, l’età indefinibile delle zingare. Giravano per il paese urlando dall’altoparlante un elenco di prodotti. Da loro ho appreso che in greco scopa si dice scopa. Plurale scopi, mi pare. L’impressione era che fossero nomadi allo stato quasi puro, erano in tre o quattro, tra uomini e donne, forse di più, e la sera dormivano sulla spiaggia, sdraiati di fianco ai furgoni parcheggiati subito lì accanto, sul battuto di cemento. Non pareva facessero grandi affari, tuttavia si sbattevano non poco, caricando e scaricando sotto il sole pile di bacili di plastica multi-colore, stracci, scope, detersivi. Qui, negli anni ho visto andare e venire molti altri ambulanti delle isole, essenzialmente con frutta, verdura, casalinghi, donne russe o ucraine che vendono biancherie lavorate a mano nelle loro campagne, ma anche con emporii semoventi di prodotti cinesi di ogni genere e utilitas: neri o cinesi che stendono un telo in terra, vi dispongono la merce e siedono sotto una tamerice lì accanto, desolati, per due o tre giorni, poi spariscono. Sembra che nessuno gli compri niente, ma dev’essere solo una mia impressione: se fosse così non ci verrebbero.** Tra le isole si muovono diversi tipi di fornitori di merci e di prestatori d’opera, secondo il principio del portare ciò di cui si dispone nei luoghi dove ce n’è bisogno e richiesta. È il principio fondamentale del commercio: la differenza di potenziale tra il luogo A che possiede metti frutta e ortaggi e il luogo B che ne è sprovvisto, genera un flusso di merci da A a B. Oggi le specializzazioni delle isole si sono attenuate, mi sembra. Un tempo i caicchi si costruivano a Kalimnos, lì c’erano i cantieri e mastri d’ascia che te lo mettevano su secondo tipologia ma anche secondo le tue esigenze. Oggi le barche da pesca sono di plastica, più leggere e veloci, sono costruite con altre tecnologie, hanno un’altra linea, si comprano in altri luoghi. Kos qui si diceva fosse l’isola della frutta e io me la sono sempre immaginata come un grande giardino di alberi carichi di pesche e pere, traboccante di pampini e meloni e karpouzi. Oltre ai cantieri navali, Kalimnos era un tempo specializzata nell’armo di barche per la pesca delle spugne. Avevano a bordo grossi compressori che pompavano aria nei tubi di respirazione di raccoglitori sub-acquei, che lavoravano intorno ai venti metri di profondità. Era gente nordafricana, egiziani e tunisini. Solo il capitano era greco, di Kalimnos. Attraccavano qui a sera, sfiniti. Avevano a bordo enormi conchiglie che vendevano ai turisti. Fuori bordo lunghe collane di spugne che spurgavano in acqua una loro sostanza opaca, aromatica. Le spugne valevano parecchio, oggi quasi non si trovano più, a comprarle. Credo nessuno vada più a prenderle, oppure sono finite e amen. * Questo tipo di bilance mi ha sempre affascinato, fin da piccolo: l’operazione del pesare vi era del tutto intuitiva, primordiale, palese: un peso standard a cursore di qua (col suo bravo bollo a certificarne l’esattezza), la merce di là sopra un vassoio pensile, la scala graduata, la velocità presti-digitatoria dell’operatore a fregarti qualche grammo, se non qualche etto, che per te è poca cosa ma per lui, a fine giornata, erano bei soldi. E poi il rumore di catene del tutto, la patina di ruggine sull’attrezzo, il suo rapporto con le leggi fondamentali dell’universo newtoniano… ** Sono sempre attratto da questi sino-emporii, che ormai incontro regolarmente nei mercati e mercatini di Roma e di paese e sempre mi soffermo a sbirciare e sempre resto sorpreso da qualcosa che improvvisamente mi convinco mi serva, una qualche invenzione cinese di un utensile, di una cosa elettrica, che prima non c’era e adesso, grazie al grande popolo cinese, c’è e costa un euro, al massimo due.

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