venerdì 27 agosto 2010

Grosse navi quadre

Il rombo delle raffiche già ci aveva svegliato, l’altra notte. Avevamo chiuso la finestra, ma lo stesso ci arrivava all’orecchio il frastuono dell’aria sulle rocce, sui pini e i cespugli, tra le fronde dell’uliveto nella valletta, aria che poi penetrava dalle fessure degli infissi, la porta di casa che sbatteva ritmica contro il telaio, ad ogni rinforzo di compressione, tanto che per dormire bisognò piegare più volte certi cartoncini di hotel e ristoranti che avevamo sul tavolo e inserirli tra telaio e battente, mentre il freddo ci costringeva a cercare una maglietta con maniche lunghe, a rannicchiarci col lenzuolo sopra la testa in cerca di sogni accettabili, invece dei soliti incubi umiliativi. Tempesta di vento da nord ovest. Il mattino dopo aveva rinforzato, impossibile stare sul terrazzo, il mare da lontano era piatto e tutto bianco, il cielo blu assoluto, senza una nube, in rada pescherecci che avevano cercato un ridosso nella notte e si erano raggruppati fraternamente a contatto di murata nel punto meno esposto, contando su più ancore, tenendosi stretti coi parabordi sotto compressione, più uno yacht anche lui in cerca di pace e salvezza che però verso le nove, pressato da una qualche urgenza, aveva levato le ancore e preso il largo avventurandosi in quell’inferno bianco di vento e di onde con randa e fiocco ridotti al minimo e pure così non dev’essere stato facile: verso nord est, prima di arrivare ad Halki ci sono venti miglia di mare aperto con un fetch aperto fino su in Tessaglia, dove il mare si alza parecchio ed è al traverso: lo so perché ne risentono pure le navi che fanno servizio tra le isole, e ormai sono grossi e tozzi parallelepipedi bianchi dotati di una prua davanti e un portellone levatoio di dietro, pesantissimi, ex traghetti cazzuti del Baltico, metti della Kamchatka, venuti qui a fine carriera e dunque disegnati per far fronte a mari molto più tempestosi e temibili di questo. Leggevo di queste navi tempo fa, che una è costruita in Giappone e l’altra in Norvegia, metti, o in Danimarca e da qui il loro aspetto di grossi bunker naviganti, le aperture piccole e non molto numerose, la forma inelegante, ma potente, in un modo che ti rassicura, ché le navi sono oggetti pericolosi, si incendiano, collidono, si incagliano, si ribaltano, vanno a fondo all’improvviso, senza una ragione. Queste navi qui vanno avanti tutto l’anno tra le isole senza un giorno di tregua, al massimo restano in porto qualche ora per rifornirsi e poi via, la solita rotta le solite bellissime caute manovre, quando le vedi arrivare mentre fanno un giro largo in modo da potersi presentare in banchina di poppa e poi danno fondo all’ancora e piano piano vengono macchine indietro al minimo fino a trenta quaranta metri dal molo, quando poi per frenare l’abbrivio innestano di nuovo marcia avanti e danno una breve fortissima botta di motore che solleva vortici bianchi di spuma tra il ferro dello scafo e il cemento del molo, mentre la gente a bordo lancia rapida in banchina le sagole cui sono attaccate le gomene di ormeggio ed è bello vederle entrare in piena tensione schizzando acqua da tutte le parti… Se in genere mi fanno paura le navi (sono sempre stato lettore avido, irretito, di storie di naufragi et tragedie marittime), qui mi fanno molta paura. Per la loro intrinseca complessità che vuole manutenzione, invece visibilmente trascurata. Per la quantità di veicoli che trasportano, pieni di benzina, che spesso sono tir pesantissimi a loro volta carichi di chissà cosa, per gli imprevisti, per la possibile imperizia, la probabile trascuratezza, la sicura stanchezza, se non lo stress, dei responsabili tecnici e dei conduttori dei vascelli, costretti a turni pesanti su mezzi il più delle volte antiquati armati da società spesso in perdita, sporchi, usurati, puzzolenti, mezzo sfasciati. E tuttavia ogni giorno le navi egee fanno il loro lavoro come ponti mobili tra le isole, magari ogni tanto urtando qualche banchina, sempre nel vento, quasi sempre in ritardo, spesso cariche al limite di mezzi e persone, meritandosi il rispetto di tutti quelli che le aspettano fiduciosi, per ore e ore, sui moli.

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