mercoledì 11 agosto 2010

Andare in aceto

Certe volte mi chiedo se quello che credo sia «il mio realismo» non sia col tempo degenerato in pessimismo e se il pessimismo non sia col tempo degenerato in cinismo e se il cinismo non sia col tempo degenerato in desolazione, in un Non Credere a Niente e a Nessuno. Quello che definisco «realismo», in realtà non era tale fin da quando comparve nel mio orizzonte mentale: si trattava di disillusione, non di senso della realtà. Il realismo è altra cosa. È senso del possibile, del fattibile, è tener conto della conoscenza del mondo, è lavoro mentale sulle cose-come-stanno, è costrutto, è modello, è l’età adulta che prende atto della realtà e si organizza per affrontarla. Realismo è il fare sapendo delle difficoltà che si incontreranno, è l’ipotizzare il fattibile nel mondo com’è e non nel mondo come si vorrebbe che fosse. Il disilluso si serve del realismo per mascherare il suo permanere nel sogno. Non per organizzarsi ad affrontare il mondo com’è, ma per giungere al non fare, all’immobilità del tanto-non-serve-a-niente, alla coltivazione dell’amarezza che fatalmente sopraggiunge con la constatazione che tra noi e i nostri desiderata c’è un largo fossato da superare, dove si può anche cadere & annegare. Anzi, dove il più delle volte si cade & si annega. È un discorso complicato, che chiederebbe almeno una preliminare definizione dei termini in gioco, che è la parte più difficile: realtà, illusione, desiderio, attuazione. Eccetera. Per quanto ci si sforzi di tenere saldamente in mano la barra dell’ipotetico timone delle nostre esistenze, arriva il momento in cui occorre prendere atto che ci si trova in un posto diverso da quello su cui avevamo messo la prua: il buon velista lo chiama «scarroccio» e ne tiene conto nel calcolo della rotta. Il navigatore inesperto non lo considera e finisce per mancare il bersaglio. Mancato il bersaglio, cioè quando ci ritroviamo in un luogo completamente diverso da quello dove pensavamo di giungere, ammesso che esistesse, cioè ammesso che non fosse del tutto immaginario (tutti i luoghi sono un po’ immaginari) possiamo concludere di aver sbagliato, oppure che nessun bersaglio può essere raggiunto, oppure che il bersaglio stesso non esiste, oppure che non vale la pena di fare rotta per nessun luogo, essendo tutti i luoghi alla fine uguali tra loro, cioè tutti egualmente scrausi, oppure tutti egualmente irraggiungibili. Infine possiamo dirci che in fondo non è che poi desiderassimo così tanto arrivarci. Fine della metafora marinara. Succede allora che il processo di presa d’atto della realtà non si compia o si compia in modo errato, generando un eccesso di amarezza, un tanto-non-serve-a-niente che produce a sua volta un’andata in aceto. La disillusione, quando non è lucida, nobile e produttiva disperazione, facile che diventi acido cinismo piccolo-borghese: è la cosa peggiore che possa capitarci subito dopo la scorciatoia spiritualistico-buddista & dalai lamista, anzi no, dopo l’adesione alla dottrina dei Dianetics. Fatto sta che io adesso non credo a niente, cioè non credo nell’uomo, non ho la minima fiducia nell’uomo, qualsiasi uomo (inteso come essere umano). E questo temo si chiami «andare in aceto».

Nessun commento:

Posta un commento