mercoledì 22 settembre 2010

Pino Pascali

Ogni tanto mi ritorna la fissa per Pino Pascali. Lo seguivo già quando avevo meno di vent’anni e lui era ancora vivo. La sua mi sembrava un’arte amica. Forse era avanguardia, io di arte non sapevo niente, eppure mi sembrava di capirlo. Dicevo «bello», perché più che capirlo credevo di sentirlo, cioè di capirne le ragioni poetiche come fossero le mie. È così, quando un artista ti arriva. Riconoscevo ogni sua opera come qualcosa che era sempre esistita. Come qualcosa che se n’era stata nascosta nella mia mente fino al momento in cui Pascali l’aveva estratta. E però dalla sua, di mente. Capivo la sua furia e mi pareva allegra. Stupivo davanti alla forza leggera delle sue invenzioni. Ciò che non può essere riprodotto testualmente può essere rappresentato.
Ma Pascali non era interessato alla rappresentazione, piuttosto voleva riprodurre, simbolicamente. O forse è meglio dire approssimativamente, ironicamente, poeticamente, metaforicamente. Di sicuro nostalgicamente: «A me piace il mare, per dire…», aveva detto, o scritto, non so. Da questo amore (che era ed è il mio stesso, inespresso, amore), aveva ricavato Scogliera, Coda di cetaceo, Pellicano, Progetto di balena, Ricostruzione di balena, Barca che affonda, Pinne di pescecane, Delfino, eccetera. Opere tutte del ’66, come fossero illustrazioni tri-dimensionali di un libro per bambini. Ma erano anche ricerche plastiche, ed erano, nello stesso tempo, riproduzioni pop di quello che chiamerei il convenzionale marino. Nell’estate del Sessantasette presi il treno per andare a vedere, a Foligno, i suoi 32 mq di mare circa, trenta vasche d’acqua, diverse le tonalità di blu. Per lui fu importante il rapporto tra il proprio immaginario e l’immaginario collettivo, appunto convenzionale, che né lui, né nessun altro come lui, avrebbe a quei tempi potuto ignorare. Gli altri erano Schifano, Tacchi, Angeli, Lo Savio, Kounellis, Festa, Ceroli (perfino), De Dominicis, Cintoli, eccetera. Non certo Burri, né Vedova, né, tutto sommato, Fontana, né forse Manzoni. Nemmeno il sublime Afro, naturalmente. Nel 1968, dopo il mare, Pascali si volge, letteralmente, alla terra, e ancora io lo seguivo e lo capivo. E poi all’archetipico, all’ancestrale, al mitico, costruendo cose bellissime, come L’arco di Ulisse. Poi l’undici settembre del Sessantotto si ammazza in moto nei sotto-passaggi di Corso d’Italia, a trentatré anni. Qualcuno ha scritto che quella notte finì un’epoca e io credo sia vero.

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