venerdì 1 ottobre 2010

Festa sul barcone

Trovo una cosa del 2004. C’è una rampa che scende giù, nel buio del greto fluviale. Il lungotevere in quel tratto te lo devi andare a cercare. È buio anch’esso, e silenzioso. La vecchia zona industriale della città, dalle parti del porto fluviale, si stende nella quiete di questa serata di domenica. Fuochi di attività, luci, le vedi accese qui e là. Sono i ristoranti, i baretti e i locali di vario genere che la stanno popolando da qualche anno. Ma nel complesso qui il vuoto prevale sul pieno, il buio sulla luce, il silenzio su tutto. Sul muraglione, all’altezza di questa rampa misteriosa, non c’è numero civico, ma ci sono un paio di fiaccole, deboli. Diceva che è al numero trenta, ma qui non c’è numero.
Queste fiaccole potrebbero essere loro. Sì, vedi, c’è gente che scende, a piedi. Ha detto prendi la rampa e scendi, fai un centinaio di metri e ci trovi. È qui. Che facciamo? Scendiamo in macchina, o parcheggiamo qui? Qui direi, magari laggiù, che ne so? Dai cerco un posto. Qui ci abitava Lorenzo una volta. Un attico con una vista meravigliosa. Stava con una, viveva con una tipa, ma la casa era sua, cioè il titolare del contratto era lui. Sì, ci invitava spesso a cena, molti anni fa, aveva un bel terrazzo. Poi con questa, che non mi ricordo come si chiamava, si sono lasciati e lui, sai com’è, le ha lasciato la casa. Capisci? Se n’è andato lui e le ha lasciato la casa, a lei. Un’altra generazione. Mi sono convinta che la generazione che oggi ha settanta ottant’anni è altra roba, altro stile, altra gente. Mi piacciono, mi ci trovo bene... lì c’è un posto, vedi? A piedi lungo il parapetto fatto di blocchi sconnessi di granito. Poi questa specie di cancello aperto e la rampa che scende. È scuro e c’è un gruppetto di invitati che scende davanti a noi, a una certa distanza. Chiacchierano, ridono. C’è un ponte più avanti. Passandoci sotto vedi che l’imposta è tutta organizzata con compensato e cartone a fare da casa a qualcuno. Qui ci abitano, vedi? Dove? Qui sotto, vedi? Bravo bravo bravo, se vede che capisci le cose, che sei svejo, ma mo’ vedi d’annattene che qui stamo a dormì. Cazzo mi ha sentito. C’è uno lì dentro, capisci? Dai vieni via su. Scendiamo, qui è buio, non mi piace, cazzo di posto per fare una festa. Il greto. Da un lato la sponda scura del fiume, alberi e cespugli che nascondono l’acqua. Sull’altro il muraglione in pietra, che sale verso il buio coperto di erbacce. Il Tevere è un mondo a parte, ancora selvaggio, forse libero. Un territorio misterioso e separato, con i suoi aborigeni, una cultura sua, un lessico. Una zona franca con altre leggi, altri usi, strani oggetti galleggianti. Animali esotici che altrove non esistono. Nutrie. Enormi ratti. Cormorani, falchi, aironi persino. Pesci, di sicuro. Più giù, ma abbastanza lontano, un faro illumina violentemente il greto. Gruppetti di gente, macchine parcheggiate. Attraccata alla riva destra del fiume una nave bianca. Sembra il battello di Fitzcarraldo, appena più moderno e malmesso. Sul ponte superiore, coperto da tende, lucine colorate e gente col bicchiere in mano. Ezio ci saluta da lassù, appoggiato al parapetto, sorride, fa segno di salire. Vedi, c’è Fabio. Dove? Lì, sta scendendo la scala. Eh, lo sapevo. Qui incontro un sacco di gente che non mi va di incontrare, che non vedo da una vita, mi fa tristezza. Mi agita, questa cosa. Dai, c’è anche gente che conosci. Come si fa per entrare? Ciao, Fabio! Come stai? Non amo rivedere Fabio, non lo stimo, fa parte integrante dei miei errori passati, di una zona della mia vita che ho obliterato, sradicato. Sei ingrassato. Guardati allo specchio, faccia da cazzo, guardati, coglione. Ti pare questa la prima cosa da dire a un amico che non vedi da anni? Ma vaffanculo. Certo che sono ingrassato. Lo so senza che me lo dici, rottame umano. Una scala di travertino - sconnessa, pericolosa, ripida, col parapetto di tubi innocenti fissato alla bell’e meglio, erbacce dalle commessure – conduce a una passerella. Sotto c’è il fiume, scorre. Subito oltre la porta di ferro, c’è un tavolino e un tizio. Questo tizio ha un elenco di invitati, non in ordine alfabetico, un po’ scritti a mano e un po’ al computer. Cerchi il suo nome qui e lo spunti col pennarello. Sono quattro facciate fitte, molta gente che conosco. Un parterre di cinquantenni, intellettuali, per lo più, si conoscono tutti, ma si conoscono per strati. Questa è una città fatta a strati, come una torta, ciascuno frequenta il suo, resta di solito nel suo. A nessuno importa nulla di nessuno, ma forse ci si vuole bene, flebilmente, distrattamente, come parenti lontani che un tempo hanno vissuto, nello stesso mondo, esperienze simili. Alcuni di noi, si direbbe più per rispettare il dato statistico che per altro, se l’è già svignata nel nulla. Fumava troppo, era sempre malato, andava troppo veloce, se l’è cercata, una fatalità, sfiga. Cerco e non trovo il mio nome. Forse anch’io sono morto e ancora non lo so. Invitiamo Egidio? Ma come, non sai che è morto? Moorto? E quando? Boh, qualche mese fa, mi pare. Un coccolone. Cazzo, ci metterei la firma, mi guardi se la pasta è cotta, peffavore? Dietro di me, sulla passerella, si è formata una fila di invitati. Qualcuno mi si affianca, lo riconosco e lui mi riconosce, ma non ci salutiamo. Ci conosciamo di vista, ma mai abbiamo parlato. Con molti altri invitati, mi accorgo, ho questo stesso tipo di rapporto, il più imbarazzante: ci si conosce da lontano. Se non lo trovo che faccio? Lo scriva qui sotto, qui di seguito, ed entri. Le scale sono sulla destra. Una specie di stanzone, largo come la nave, con sedie e tavolini, deserto. Una fila di piccoli oblò circolari si apre sulle pareti. Il pavimento di lamiera è dipinto di smalto verde. Cammino con difficoltà, mi sembra di vacillare ad ogni passo, la luce è fioca. Aumenta il disagio. Questo pavimento è in pendenza, mi pare. Sì, forse. È grande, però. Sì è grande, però che mi frega se è grande? Scale verdi anch’esse, molto ripide, marinare, sdutte, quasi buie. Dall’alto piove un vocìo sommesso, niente musica. Sono solo pochi gradini di lamiera col bordo ricoperto di plastica consumata, ma faccio fatica a salire. Perché sudo, adesso? Spuntiamo in alto, sul ponte principale. Tende bianche, tavolini e sedie in plastica bianca, buffet, gente in piedi. I tubi al neon prevalgono sulle file di lucine colorate. Il fiume oltre il parapetto, scuro e lento. L’aria fresca ma molto umida. Faccio qualche passo verso la nostra ospite che ci accoglie: ha le braccia colme di pacchetti regalo. Vacillo. Il pavimento non è in piano. Ho fame, sudo. Si avvicina Ezio, abbraccio, bacio, lui è sudato come me. Per un istante le nostre guance virili restano appiccicate. Vorrei abolire, lo dico sempre, il bacio rituale tra uomini. Barbe, pelli, aliti, sudori. Basta. Questa nave è storta, obliqua, affonda. Mannò, che dici, è il fiume che è in secca. Vuoi dire che tocchiamo sul fondo? Già. Già. La festeggiata non apre il nostro regalo. Non può materialmente farlo: sono troppi, non ha un piano di appoggio. Meno male, quella borsa che le abbiamo comprato non mio piace. Non potrà identificarla come un nostro regalo. Il flusso degli invitati è sostenuto e costante. Arrivano vecchie e nuove facce. Ciao, guancia appiccicaticcia. Ciao... ma chi sei? La faccia non mi è nuova, e però chi cazzo sei? Ecco, ciao e ri-ciao. Come stai, bene sì. Ciao ragazza coi capelli bianchi, una volta andammo a letto assieme, ricordi? no? meglio perché io invece ricordo bene che feci schifo. Però, per favore, tingi quei capelli, cazzo. Eh, sì adesso insegno a Palermo. Ho un corso a Genova, ancora sì. Insegno a Cassino, letteratura tedesca. Diritto privato a Salerno, no ordinario, ah complimenti, grazie figurati. Beato te che non sei nell’accademia, sapessi... Mah, non so, però scusami se te lo dico, sempre meglio che lavorare sarà... Ah ah, eeh. Ma che ha fatto? Non è solo invecchiato, è che sembra uscito da una catastrofe nucleare. Ha la faccia come una prugna secca, ma color castagna. L’alito, non ti dico. Sta marcendo dentro. Io faccio la stessa impressione a lui. Sicuro. Lo vedo da come mi guarda. Il buffet pieno raso di cubetti di parmigiano e gruviera con lo stecchino infilzato. Chi l’avrà fatto questo lavoro immane? Olive, certo, noccioline, certo. Su ogni tavolo c’è una ciotola colma di pistacchi, ma non c’è dove mettere i gusci. Dunque per terra, si decide all’unisono tacitamente, tutti. I gusci dei pistacchi per terra. Se arrivi al parapetto, nel fiume. Non so che fare, dove mettermi, che dire. Il disagio aumenta ancora e si precisa meglio: dappertutto vorrei essere, meno che qui, stasera, su questo cazzo di barcone sghimbescio con queste persone. Non so perché, ma una voce, la stessa voce che ha mandato affanculo Fabio sulla scaletta, mi dice via di qui. Noto che altri fanno fatica a muoversi. Molti sudano. Sediamoci qui, dai. Cioè tu se vuoi gira, ma io mi siedo qui. Anzi, sai che ti dico? Non mi muoverò di qui per tutta la sera. Mi siedo anch’io, sai? Che giro a fare? Ecco che arriva Fabio. Non lo sopporto, ha pure detto che sono ingrassato. Anzi è la sola cosa che ha detto. Posso? Ehm, Fabio, sai è che stavamo andando via. Via? Ehm, no, cioè mi sono dimenticato di fare una cosa, vado e torno. Sì. Ciao. Ma cosa ti sei dimenticato? È una scusa? Certo. Non ho dimenticato niente, me ne vado. Se tu vuoi resta, chiedi a Reginalda di accompagnarti. Io vado, adesso. Non stai bene? No sto malissimo, il pavimento pende e mi fa stare male. Tutta questa gente non voglio nemmeno salutarla. Ho caldo, sudo, la giacca mi è stretta, ha ragione quello stronzo di Fabio. Vado, dì che sono morto, che stavo male. Vengo anch’io. Ecco, mai che ti scollassi da me. Resta, che figura ci facciamo? Non mi frega, vengo con te. Tanto qui è pieno di gente, manco se ne accorgono. Tre. Due. Uno. Ignetion! Via. (Pare che quel barcone sia poi affondato, qualche anno fa)

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