giovedì 7 ottobre 2010

La dissoluzione del corpo

Scrivevo qualche mese fa un appunto sulla perdita del corpo come unità esteticamente significante, armonica e sede dell’eros. Ecco invece un corpo come supporto plasmabile, mi dicevo, cioè palestrabile et modificabile et tatuabile quasi del tutto a piacere, al di là, e oltre, ogni eros della proporzione, verso un eros della deformità simbolica, dell’ipertrofia muscolare, della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari e secondari (labbra cammellate, tette inturgidite fino alla congestione, culi issati, volti stirati come mummie, occhi ritagliati in su o in giù, a piacere, botulini che annientano la motilità muscolare, zigomi plastificati, eccetera), che restano palesemente falsi, cioè visibili come frutto di artificio e manomissione.
Ogni residuo della percezione classica, unitaria & armonica del corpo, inteso come utopia estetica della specie e scrigno assoluto dell’eros, è completamente cancellato: il corpo si è dissociato nelle sue componenti, ogni parte, naturale o artefatta che sia, viene percepita a sé, come unità autonoma, come sede di un eros specifico, cioè puntualmente focalizzato, non di rado feticista. In questo quadro c’è il tatuaggio come illustrabilità casuale – cioè priva di programma, di un progetto, di design – di ogni parte del corpo, con qual si voglia figurazione, ma quasi mai pensata specificamente come ornato corporale e invece desunta e traslocata da famiglie di figure aliene al corpo, come il fumetto, come soprattutto il fumetto. Si vede bene nei corpi molto tatuati la casualità delle figure, spesso dislocate negli spazi cutanei rimasti liberi, con assoluta non curanza, non solo dell’importanza percettiva di quel tratto di pelle, ma anche di soggetto e natura dei tatuaggi circonvicini, così che alla lunga si finisce per assomigliare a quei foglietti di carta per appunti rimasti su un tavolo alla fine di una riunione, pieni di disegnini fatti sovrappensiero, uno grande, uno piccolo, l’animaletto accanto al motivo geometrico, alla voluta ossessiva. In questo modo si lede la continuità visuale del corpo, si manomette il suo essere un uno, un intero convenzionalmente composto di parti, ciascuna delle quali presa a sé non avrebbe senso se non come parte appunto di quel determinato tutto. E a sua volta il corpo, in quanto tutto, cioè in quanto già in sé figura, non dovrebbe essere luogo di autonome e ulteriori figurazioni, ma solo ed eventualmente di decorazioni specificamente pensate per la forma umana, imparando in questo dalle culture così dette primitive, che difficilmente dimenticano, per esempio, l’esistenza di un asse di simmetria bilaterale che corre lungo l’intera estensione fisica di homo, del qual bisogna tenere conto nella dispositio del disegno. Ma in quanto appena detto sulla prassi decorativa tribale (certo, sono enormi le differenze da luogo a luogo, da cultura a cultura) c’è un progetto, una ritualità, un significato, che di solito sono del tutto estranei alla tatuazione occidentale, in genere frutto di un non curante estro casuale, del tutto ignaro delle conseguenze distruttive che comporta per la figura umana.

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