domenica 14 novembre 2010

L'arte come "musica leggera per ceti medi"

Tornato domenica al MAXXI, messomi in fila lungamente assieme a frammenti di Ceto Medio Riflessivo, alcuni con odiosi ragazzini al seguito – ragazzini poi ritrovati al primo piano tutti assieme, seduti per terra in cerchio e intrattenuti da appositi addetti, che tracciavano sgorbi su pezzi di carta extra-strong forniti dal museo sotto l’occhio amorevole dei genitori, oppure ritrovati in scampoli per le sale, come la bambina esortata dalla mamma ultra-trentenne ad entrare nel triangolo tracciato a terra di De Dominicis, mentre la mamma esclamava Ecco adesso sei un’opera d’Arte! – et pregustandomi l’Ingresso Gratis che spetterebbe di diritto al sessantacinquenne, per scoprire che, contrariamente metti alla GNAM, lì al MAXXI il sessantacinquenne entra gratis solo il martedì: Va bene, esticazzi? mi sono detto, ho sempre pagato il biglietto ovunque e l’ho fatto volentieri, posso pagare pure oggi: però già mi girava storta, già quel poco di ricettività e disponibilità all’Arte mi svaniva e guardavo, non soltanto il complesso architettonico (insolito monumento alla stupidità del ceto sociale trendarolo & colto cui è destinato), ma tutta l’Arte lì esposta, come fossero un’unica grande costosa idiozia: anzi, domenica scorsa questo sentimento si allargò non solo all’Arte tutta, ma in generale a tutti gli artisti: percepivo (per la prima volta in vita mia) l’inutilità e la stupidità dell’Arte in quanto tale, la scemenza di andare a vederla, soprattutto nello scoprire che la mostra di De Dominicis, che ero corso a vedere, è ancora su, da mesi e mesi e che De Dominicis che un tempo mi convinceva e che seguivo fin dalla sua prima mostra all’Attico negli anni Sessanta, di colpo non mi piaceva più, anzi mi infastidiva: Che io sia diventato un arido insensibile? Che non sia più capace di stabilire un contatto con l’Arte contemporanea? mi chiedevo, ripensando alle emozioni provate invece l’altr’anno al Castello di Rivoli: domenica scorsa la sensazione era desolante e forte come la voglia di andare via di lì, la voglia di mettere spazio tra me e l’igloo di Merz, tra me e un quadraccio di Kiefer, tra me e uno stanzone foderato di pelle di Penone, tra me e un ennesimo arazzo di Boetti (lui e le ricamatrici afgane…), tra me e una infinita sequenza di auto-ritratti fotografici di Ontani: la voglia di mettere spazio tra me e quattro grandi disegni di Gilbert & George azziccati dentro un cubone bianco, inabitabile, spazio tra me e tre lavagne di Beuys, tra me e il Fiume con foce tripla di Pascali, che pure mi piaceva, tra me e Aurora di Mario Airò che anch’essa mi piaceva, forse l’unica cosa che nella sua ingenua insipienza mi piaceva davvero: mettere spazio tra me e tutte le altre opere presenti nella collezione permanente, tristemente e incomprensibilmente accostate l’una all’altra et suddivise per temi, mentre le collezioni permanenti io le concepisco esclusivamente disposte in ordine cronologico: ma qui, seguendo questo criterio si sarebbero visti troppo bene i buchi e le manchevolezze e le mancanze, soprattutto di opere del XXI secolo, come promette il nome stesso dell’egotico sfracello architettonico a firma dell’architetto-star Zaha Hadid. Ci aggiravamo io ed A. cercando le targhette delle opere, sempre situate molto distanti dal loro referente, laggiù in fondo, oppure dietro l’angolo, tutte con una debita e odiosa schedina critica per spiegare al bourgeois in visita perché quell’opera sarebbe importante e soprattutto cosa significa, cosa rappresenta, insomma chevvordì: questo compito se lo assumevano anche ragazze affaticate che parlavano ad alta voce a gruppi di visitatori ansiosi di sapere & capire: ma se sapere si può e forse si deve, capire proprio no, non serve, non è richiesto, l’Arte, sourtout quella contemporanea, non lo contempla, non vuole essere detta, ci lascia soli, intimidendoci col proprio insistito enigma: e però, senza nulla volere togliere all’Arte, in definitiva potrebbe trattarsi, come percepivo domenica scorsa, di un’unica & grande, talvolta persino convincente, cazzata: sì, l’Arte contemporanea – così auto-compiaciuta, priva di committenza, senza alcuna funzione sociale, relegata nei musei e nelle gallerie, attufata nelle collezioni, nei caveau delle banche, separata dal contatto con «le masse» (alle quali dell’arte nulla cale, a meno che non sia «simpatica»), se si eccettuano appunto scampoli di Ceto Medio Riflessivo & international che misteriosamente la cerca e forse ne gode, anche se il più delle volte li vedi che sono lì ad auto-torturarsi nella visione della sequenza auto-referenziale delle opere – è proprio una cazzata, come testimonia questo imbarazzante, enorme, accrocco a forma di igloo, in ferro, vetro incrinato & morsetti, insomma «tecnica mista» (ah, la formula «tecnica mista), a firma del defunto signor Mario Merz, artista riconosciuto.

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