mercoledì 10 novembre 2010

Quasi quasi oggi esco

S’era svegliato verso le quattro del pomeriggio. Aveva dormito sì e no un’ora, ma si sentiva come avesse fatto un sonno lunghissimo et profondo. Emergeva stordito e contrariato da quell’abisso, in un pomeriggio di tempo novembrino e incerto. Dalla finestra il brano sgangherato di città che gli era concesso di vedere verso nord ovest, era sovrastato da un cielo azzurro con stracci di nubi ingiallite dal tramonto incipiente. Allora si disse: No per oggi basta lavoro, non ce la faccio, non riesco. Oggi uscire, camminare, vagare bighellonare, godermi la città là dove mi piace di più, nei suoi vicoli antichi, punteggiati di slarghi e palazzi e chiese ostinatamente gigantesche e curvilinee. Basta, per oggi non piove più, farsi cullare dalla bellezza di questa città che pure non amo, ma che è capace di strapparmi ogni volta un consenso furibondo. Questa città di cui sono servo, come molti, dove sono nato e dove probabilmente tirerò le cuoia, questa città mi chiama. Pago il garage, prendo la moto e in pochi minuti sono lì. Parcheggio e mi faccio un giro, sempre per le stesse vie, gli stessi posti, come facevo tutti i tardi pomeriggi quando abitavo da quelle parti, se non fosse che molti di quei negozi, dei bar, delle libreria di allora non ci sono più. Se non fosse che non è più possibile incontravi GC già ubriaco alle sette di sera e non era un bello spettacolo, con pochi denti davanti, che barcollava. Molti altri come lui sono scomparsi, evaporati, sono morti o vivono altrove o sono restati, pochi, a vivere in un brano di città ormai completamente cambiato. Le case hanno mutato colore, la gente è diversa, io sono diverso. È normale, la città ci trascende, se ne frega di noi che la vorremmo immobile a cullare la nostra memoria. È così da molti secoli, la città ha lasciato che, una generazione dopo l’altra, percorressimo le sue vie, che in inverno godessimo del sole che ristagna a sprazzi negli slarghi del tessuto compatto, che d’estate ci riparassimo dal calore nell’ombra dei vicoli, in quella proiettata dalle grandi masse delle chiese, dei palazzi, mentre tornavamo a casa. Adesso quasi quasi esco, prendo la moto e vado. Poi mentre era in bagno a pisciare udì la pioggia crepitare sui vetri smerigliati del vasistas della finestra a sud, quella da dove di notte aveva visto spesso la luna piena illuminare la vasca da bagno, il water. Gettò un’occhiata fuori, verso il triangolo di cielo inquadrato dal vasistas e scorse in alto una specie di piattaforma di nubi, un’immensa nera zattera volante che avanzava verso nord. Tornò alla finestra della camera da letto e vide che quella specie di smisurata tenda temporalesca, stava occupando anche il cielo a nord ovest, dove ancora c’era luce. Già pioveva, la gente in strada aveva aperto l’ombrello. Si vede che quella giornata doveva andare così. Il buio venne giù molto presto, la pioggia si intensificò, divenne stabile, fitta, la si vedeva cadere sempre più forte contro la luce gialla dell’illuminazione stradale. L’acqua frusciava sotto le ruote delle automobili. Niente moto, niente uscire, niente passeggiare, solo restare a casa. Solo lavorare fino a sera.

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