giovedì 30 dicembre 2010

Lavoro corporale

Adesso davvero è netta la percezione del ritorno agli anni Cinquanta. Dico adesso per via dell’accordo di Pomigliano. Per via di organizzazioni sindacali che si fanno organiche alla proprietà. Per via del ritorno dell’operaio come fisio-macchina di cui non frega un cazzo a nessuno. Un operaio che pur di lavorare (ma il ricatto è davvero reale?) si sotto-mette (oltre al resto) a condizioni di maggiore sofferenza fisica*, non si sa bene se imposte per esigenze di produzione o per un piano più vasto e astuto del padronato italiano, di cui la Fiat non è che la testa d’ariete.
Tuttavia le differenze con gli anni Cinquanta sono parecchie. «Globalizzazione» a parte, la prima e più importante è l’assenza di uno o più partiti politici forti capaci di rappresentare gli operai e in genere i poveri i deboli gli sfruttati gli immigrati. Forze capaci allo stesso tempo di lottare metro per metro per riformare lo stato in senso sociale, egualitario, laico, civile. La seconda è la scomparsa degli operai come classe e la scomparsa in genere di tutte le classi, confluite in un unico pastone sociale che in comune non ha altro che una cultura «bassa», imperniata sulle «tre effe» (Labranca): fashion, fitness, fiction. La terza differenza è che il presente italiano, a differenza degli anni Cinquanta, è fortemente mediatizzato, consentendo a chi detiene i mezzi di comunicazione di massa di arrivare direttamente alle menti, senza nemmeno doverle convincere razionalmente, ma lavorando sulle emozioni. Quest’ultima circostanza ha prodotto una sorta di desertificazione delle idee, non più variegate, diversificate e plurali, ma al contrario monocrome e tendenti all’unificazione su una piattaforma comune: il mantenimento della società così com’è, con l’aggiunta di una poderosa implementazione del consenso verso l’ideologia liberista & capitalista. Per questo motivo, ciò che sta accadendo agli operai non suscita vera opposizione, nemmeno in quelle forze che storicamente discendono da antecedenti social-comunisti: la desertificazione politica e culturale le ha raggiunte e inglobate. Per questo motivo una larga parte della popolazione non percepisce la modificazione delle modalità d’uso del corpo degli operai nel processo produttivo e la regressione in atto nei rapporti di lavoro come un attacco al corpo (fisico) e ai diritti di tutti i cittadini. Per questo motivo il capitale sa che se sfonda in quella fabbrica, sfonda ovunque. Per quel che resta da sfondare, naturalmente, perché sul resto ha funzionato egregiamente la persuasione mediatica, che sin dalla fine dei Settanta ha trovato terreno fertile nella debolezza culturale di una percentuale di italiani «medi», trascurata e disprezzata dalla sinistra, ma rivelatasi poi determinante. E proprio tramite i media in questi giorni sta passando questa immagine: chi lavora per la regressione agli anni Cinquanta si auto-definisce «riformista», mentre quelli che difendono le conquiste operaie degli anni Settanta vengono definiti «conservatori». Oggi, come mai prima, le parole giocano un ruolo decisivo.

*Si parla molto di condizioni del lavoro manuale, ma quello della fabbrica bisognerebbe piuttosto chiamarlo lavoro corporale, perché implica una sorta di integrazione corpo-macchina, in cui mani e testa sono sicuramente coinvolte, ma non nei modi dell’artigiano o del tecnico, quanto piuttosto in quelli del metalmeccanico, che è obbligato a mettere a disposizione del processo produttivo la sua intera entità fisica, incollandola alla catena di montaggio, che, per quanto modernizzata e robotizzata, richiede tutt’ora un massiccio contributo in termini di presenza umana, proprio lì, tra le lamiere pressofuse ancora grezze e da assemblare…     


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