mercoledì 5 gennaio 2011

Una cultura in de-composizione?


Siamo nell’era in cui il capitale può ormai comodamente sfruttare le disparità di costi insediativi, produttivi, fiscali e di manodopera che esistono nel mondo.
È un fenomeno che alla lunga condurrà al pareggiamento globale delle economie e delle convenienze, ma per adesso produce una devastante ricattabilità della manodopera locale.
O accetti queste condizioni o ce ne andiamo dove più ci conviene: questo ti dicono.
Sono sotto i nostri occhi i primi segnali di un nuovo assoggettamento di chi presta la propria opera nei processi produttivi, industriali e non, di chi, per sopravvivere, si arrende facendosi schiavo nelle campagne e nelle città, vergognandosi di esistere-in-quanto-dominato* e dunque di pretendere ciò che solo ieri era ritenuto equo, se non giusto.

È l’avvento di una nuova razza di dominanti che, come è proprio della così detta natura umana, non si fermerà di fronte a niente pur di spuntare sempre maggiori margini di profitto, pur di tenere per se la maggioranza delle risorse di questo pianeta.
In questa situazione una massa incoerente di dominati non trova efficaci  modi di organizzazione politica per contrastare (in primis nelle menti) una tendenza che accelera sempre di più e ogni giorno produce nuova sofferenza, nuova incertezza, nuova disperazione individuale, una disperazione che non riesce a trasformarsi in disperazione collettiva, quindi in iniziativa e lotta.
È un discorso complesso perché le variabili in gioco sono molte e diverse tra loro, ma un punto che appare cruciale non è chiedersi se, per esempio, Fiat abbia ragione economica o no a chiedere nuove regole in fabbrica (ne ha sicuramente, altrimenti non cercherebbe di imporle, come sta facendo), quanto chiedersi come, in queste condizioni, si riesca ad opporsi efficacemente all’avanzata aggressiva del capitale.
L’unica strada risiederebbe nel vecchio imperativo comunista «proletari di tutto il mondo unitevi», vale a dire in un’azione politica internazionale tesa a raggiungere un contratto di lavoro collettivo di tipo globale, basato sulla consapevolezza operaia, un tempo molto diffusa, che le lotte locali interessano la totalità dei dominati, così come interessano la totalità dei dominanti. Ma oggi questa è pura utopia.
Però immagino che prima o poi, sotto altre forme e su territori sempre più vasti, dovranno per forza affermarsi una nuova consapevolezza e solidarietà operaie, assieme a nuovi partiti necessariamente trans-nazionali, capaci cioè di reggere il confronto sul piano globale.
Le premesse per certi versi già ci sarebbero, ma il mondo operaio, privato com’è della propria cultura storica** (quindi anche dei relativi strumenti di analisi), sembra addormentato rassegnato silente spaventato disilluso.
È come se alle spalle non avesse una storia dalla quale trarre insegnamento, come se avesse paura & noia delle parole fin qui usate, come se ci fosse bisogno di altre parole, nuove e diverse, di altri concetti, di altre promesse.
Parole, concetti, promesse che oggi nessuno sembra in grado di proferire, formulare, prefigurare, mentre la promessa (falsa) del capitale resta sempre la stessa: chi si fa ricco arricchisce gli altri.
È come se la sinistra si ritrovasse priva della pressione sanguigna necessaria a convincere, a organizzare e agire, è come se le parole che ci sono tornate utili per un intero secolo di lotte anti-capitaliste di emancipazione operaia oggi siano diventate impronunciabili, inutilizzabili come molluschi morti e decomposti.

*Passa ormai ovunque anche da noi, soprattutto nei giovani, l’idea, orribile & «americana», che se non hai soldi è colpa tua e dunque ti meriti povertà e disagi. Come se le condizioni di partenza fossero uguali per tutti, come se non esistessero e stessero aumentando a dismisura, diseguaglianze e privilegi.
** Oggi detta «ideologia» e come tale esecrata, come se quella liberista non fosse anch’essa ideologia, come se il pensiero umano potesse fare a meno dell’ideologia, cioè di sistemi di interpretazione del mondo messi insieme nel tempo, con fatica, da uomini che vi si sono applicati con intelligenza passione pazienza.    

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