venerdì 17 dicembre 2010

Violenza e democrazia: un appunto


Invece di prendere atto et riflettere sul significato di ciò che è accaduto, molte voci si levano alte a condannare la violenza della manifestazione del 14 dicembre scorso.
L’argomentazione «moderata» tipica, peraltro già ampiamente usata da almeno 50 anni a questa parte in occasione di episodi analoghi, è la seguente: bene fanno gli studenti a manifestare pacificamente i loro disagi e la loro opposizione, ma gli atti di violenza li fanno passare dalla parte del torto, così come dalla parte del torto li fanno passare scioperi, occupazioni, interruzioni della didattica, eccetera.

Si disce inoltre che la manifestazione violenta viola «le regole della convivenza democratica» e che non verranno tollerati altri episodi del genere (leggi: se vi azzardate a scendere di nuovo in piazza vi faremo un culo così).
Poi da «sinistra» si parla di infiltrati, supponendo azioni provocatorie (mai in verità escludibili a priori) da parte di elementi della polizia mimetizzati da studenti, assolvendo quindi i giovani come non-cominciatori degli scontri e comunque come non-responsabili degli atti più violenti che sarebbero stati compiuti da consumati provocatori in borghese manovrati da opachi organi dello Stato.
Invece di riconoscere che migliaia di studenti si sono apertamente e coscientemente (e politicamente) contrapposti alla polizia in modo ineluttabilmente fisico, si cerca di de-responsabilizzarli attribuendo violenza e distruzioni a soggetti alieni o a gruppi estremisti pre-organizzati: sicuramente ci saranno stati, ma la grande massa schierata in Piazza del Popolo era autenticamente studentesca.
Pochi sono quelli che se la sentono di riconoscere alla violenza «di piazza» – il cui teatro è lo spazio pubblico dell’urbs –, fatte salve certe condizioni, uno status democratico, in quanto unico modo per segnalare e marcare in modo forte all’«opinione pubblica» (alla quale è sensibile il potere politico) l’esistenza di uno stato di sofferenza di una parte più o meno consistente di cittadini.
Insomma la violenza è il linguaggio politico della disperazione/esasperazione/rabbia e assume un significato forte quando non c’è altro modo di esistere politicamente: si rammentino le rivolte degli immigrati a Rosarno e altrove, che hanno fatto emergere una realtà altrimenti poco conosciuta e hanno portato ad alcuni provvedimenti, non solo repressivi.
In particolari contingenze storiche, come l’attuale, caratterizzata da de-politicizzazione, inerzia, indifferenza et cinismo di massa, la violenza assume valore dirompente e conferisce status politico-mediatico a chi non ce l’ha.
Finora il movimento degli studenti è stato considerato, sia da destra che da «sinistra», in modo per lo più paternalistico: Hanno ragione i nostri poveri ragazzi, che studiano in una scuola e in una università degradate e prive di risorse, cui non promettiamo altro che un futuro da precari, eccetera. Ebbene, dopo due anni di movimento, martedì scorso questi ragazzi hanno emesso due segnali forti, uno verso l’esterno e uno verso l’interno del movimento.
Il primo dice: prendete atto della nostra esistenza in quanto soggetto politico.
Il secondo dice: ci siamo, esistiamo, siamo riusciti a stornare lo sguardo dal Palazzo, affermando l’esistenza di qualcosa al di fuori di esso, organizziamoci, possiamo crescere, ma a condizione di non stare al gioco: questo può essere un inizio, qualcun altro seguirà il nostro esempio.
Eccetera.

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